Sono quasi passati tre anni. La prima metà il trombettista jazz Marco Vezzoso l’ha trascorsa a elaborare il trauma, l’altra a convertirlo in rinascita, personale a artistica. Dando vita a ciò che sa fare meglio: un disco. Diventato poi concerto e teatro. Lui era lì, quel 14 luglio 2016. Stava suonando come tante altre volte al Prom’ Party, quando la musica e la festa sono diventate follia, sangue e morte. In un passaggio del recitativo della sua opera musicale e poetica, il doppio cd 14.07 du Côté de l’Art, a un certo punto le voci narranti di Marc Duret (in francese e in inglese) e di Chiara Buratti (in italiano) elencano le nazionalità delle ottantasei vittime, dai quaranta francesi ai sei italiani ai cinque algerini fino all’“unico” romeno, ucraino, belga, armeno e georgiano. In mezzo vittime di altre undici nazioni, senza contare gli oltre trecento feriti dal resto del mondo. Vezzoso quella sera i morti e i feriti li ha visti tutti, pur non vedendone nessuno nella disperata ricerca di sua moglie che credeva anch’essa falciata dal camion del 31enne omicida franco-tunisino. Dopo aver debuttato lo scorso aprile al Teatro del Ponente di Genova (con l’intero ricavato devoluto all’associazione per la difesa dei diritti dell’infanzia Help Code) il 38enne trombettista piemontese di Alba, ma nizzardo di adozione, porterà ora il suo concerto-testimonianza al Festival Deltablues di Rovigo il 16 giugno.
Vezzoso, perché questo progetto?
La risposta da dare a tragedie come questa, e al terrorismo in generale, è proclamare la forza vitale della bellezza. Per questo il disco si intitola “dalla parte dell’arte”: è sempre la parte giusta, in qualsiasi mondo e cultura. L’arte è l’antidoto migliore, è l’esaltazione del bello e dei buoni e nobili sentimenti. Dopo quello che ho vissuto in prima persona sentivo di dover fare qualcosa. E la musica è ciò che so fare meglio. Avevo bisogno di lasciare sgorgare da un avvenimento così tragico e sconvolgente qualcosa di artistico che fosse la mia personale testimonianza, per continuare a coltivare la speranza con rinnovata leggerezza nel cuore, da trasmettere anche ai miei allievi.
Lei insegna?
Da anni sono al conservatorio nazionale di Nizza dove insegno tromba jazz. Mi divido tra i concerti e la docenza, perché per me la musica è una ideale proiezione in quel mondo migliore in cui credo, confidando anzitutto nelle nuove generazioni. Dobbiamo far capire loro che non è necessario commettere gli stessi sbagli del passato e di oggi. Soprattutto dopo ciò che ho vissuto tre anni fa.
Cosa ricorda di quella sera?
Stavo suonando sul primo dei quattro palchi allestiti sulla Promenade des Anglais. Così sono stato tra i primi a vedere arrivare il camion che procedeva da ovest verso est andando a zigzag e travolgendo tutti. Quella sera era prevista una prima parte di concerto, poi i fuochi d’artificio dopo le 22. Mia moglie si era appena congedata da me per rientrare a casa, mentre io avrei dovuto continuare a suonare dopo lo spettacolo pirotecnico. Tutto è stato fulmineo, assurdo e incredibile. Ma ho subito pensato a lei. La chiamavo al telefono, ma l’aveva spento. Allora ho iniziato a correre come un disperato. Quel che ho visto è stato pazzesco.
Può raccontarlo?
Avrò corso per quasi due chilometri, lungo tutta la Promenade. Davanti ai miei occhi una Via Crucis. Camminavo, correvo e vedevo morti e feriti. Tutta questa concitazione la ricordo in una scena emblematica. Delle circa diecimila persone che c’erano, in pochi secondi non si vedeva più nessuno tranne i corpi a terra. Solo aver trovato mia moglie viva mi ha dato un po’ di pace. Ma per un anno e mezzo non sono più stato in grado di comporre, ero sotto choc.
La musica è diventata però la sua terapia...
Sì, e questo disco ha due significati: segna la mia rinascita artistica ed è il mio intimo omaggio a qualcosa che ha segnato la nostra vita. All’inizio avevo pensato a un progetto solo musicale, ma poi ho ritenuto che dovesse avere una dimensione più universale e che quindi mancasse qualcosa: la parola. Però non la intendevo nella forma canzone, con un testo e una melodia. Ci voleva qualcosa di più alto e solenne per testimoniare un fatto così drammatico.
Così è nato il testo teatrale...
Ho chiamato il poeta ligure Giannino Balbis con cui avevo già lavorato in passato. Grazie alla sua sensibilità e dopo molte ore di discussione a quattr’occhi il progetto ha preso forma diventando un mélange tra musica e poesia. Balbis ha voluto raccontare Nizza prima, durante e dopo l’attentato. Così al primo disco con le mie musiche, tra jazz, pop e world music, si è aggiunto il secondo, teatrale, con i tre canti recitati e da me accompagnati: Promenade des Anglais, Promenade de sang e Promenade des sansguerre. Questa terza lirica rappresenta gli artisti che aborriscono la guerra.
Tre lingue tutte europee, però.
A dire la verità, per lanciare un universale messaggio di pace e di fratellanza il progetto iniziale prevedeva una versione anche in lingua araba. Ma ci sono stati problemi pratici e purtroppo non è stato fatto. Comunque era fondamentale farlo in francese e in italiano perché lo sono io e perché Nizza è piena di italiani. E naturalmente in inglese, la lingua che connette tutti i popoli in ogni latitudine.
Nelle rappresentazioni dal vivo ci sarà qualche novità rispetto al disco?
In Italia mi presento con lo stesso organico del disco: Alessandro Collina al piano, Marc Peillon al contrabbasso e Rodolfo Cervetto alla batteria. All’estero con me e il pianista ci sono di volta in volta altri musicisti.
E nella parte teatrale?
Per poter ripercorrere appieno in un’ora di spettacolo quella drammatica giornata, la regia di Chiara Buratti prevede dei monologhi che legano i testi di Balbis. Ma soprattutto l’empatia, che ci unisce tutti dalla stessa parte.