Un addio è triste nella misura in cui viene vissuto dall’anima. E quella dei tifosi milanisti, domenica, non potrà disporre di una parte positiva, di un contrappeso fatto di gioia, di festa. A San Siro, ore 15, chiuderà il sipario: il Milan sgattaiolerà fuori dalla porta secondaria della stagione senza nulla in mano, senza “tituli”, niente. E a completare, anzi, ad amplificare un contesto da “allegro non troppo”, ecco l’appuntamento con lo scadere del tempo di Filippo Inzaghi, di Clarence Seedorf, di Alessandro Nesta. Sullo sfondo anche Gianluca Zambrotta e, forse, persino Gennaro Gattuso. Nesta porterà la sua classe negli Stati Uniti, probabilmente ai New York Red Bulls. Il Milan - inteso come quello degli ultimi 10 anni, quello ancelottiano prima e allegriano poi - chiude i battenti con l’uscita degli artisti, quelli che, nel bene e nel male, hanno caratterizzato l’ultima fetta della grandeur rossonera e berlusconiana. Nel magazzino di questi uomini, scatoloni di vittorie, di serate prestigiose, di protagonismo anche nelle pieghe di sconfitte brucianti: e il loro congedo in contemporanea ha un significato che va ben oltre quello letterale. Ora bisogna ricominciare, ma sul serio. Vanno trovati gli eredi tecnici e umani di questo mucchio così poco selvaggio e tuttavia ricco di cromosomi vincenti. Sul fatto che il Milan sia già sulla buona strada per realizzare questa delicata operazione è lecito dubitare, ed è stato lo stesso Alessandro Nesta - con il consueto garbo - a fare capire durante la conferenza stampa indetta per ufficializzare il proprio addio, che il nuovo avanza poco, anzi, se ne sta dietro, in difesa: «Io un erede qui ce l’ho, anzi, è pure meglio, è Thiago Silva. Ma non so se giocherà qui per dieci anni come me. Per aprire un nuovo ciclo serve gente come Pirlo e Seedorf, che hanno fatto tanto per questa squadra, bravi giocatori e seri professionisti che volevano vincere. Non so se il Milan ha già i sostituti, preferisco guardare al mio di futuro...». Già, Pirlo, l’uomo-scudetto. Degli altri. Già, Seedorf. Il colosso del centrocampo e dell’ego che, per non dovere chiedere un bonus a un allenatore diventato nemico giurato, potrebbe persino mancare all’ultimo appuntamento con San Siro. Cambia vita l’olandese, da autentico cittadino del villaggio globale, si sintonizza con il mondo della moglie brasiliana e andrà al Botafogo, prestigioso e impolverato caposaldo del futebol di Rio de Janeiro. Domani l’ultimo allenamento, lunedì alla Malpensa: e non si sa ancora, davvero, se in mezzo ci sarà l’ultima maglia numero 10, o almeno una comparsata in camicia e jeans, per dire grazie e riceverne uno ancora più grande. Brutto lasciarsi così, decisamente. È uno dei tanti segnali che indicano come, tra un gol-non-gol e uno stiramento, altri fattori ambientali possano avere influito sull’affossamento finale dei sogni rossoneri. Seedorf dissidente delle ultime tornate, Inzaghi di tutto l’anno (lui, invece, col Novara ci sarà: vincerà la sfida delle lacrime dei tifosi, è sicuro), Nesta che va via perché, dice, a 36 anni ha fatto «un po’ di conti: i ritmi del campionato italiano, della Champions e della coppa Italia non mi permettono di giocare sempre. Non ce la faccio ad aspettare in panchina, se non mi sento importante preferisco stare a casa». E poi Gattuso che fa sapere a chiare lettere che non rimarrà per fare il padre nobile, o il motivatore in calzoncini. Il cocktail tra carta d’identità, esigenze tecniche, bracci di ferro tra i senatori e Allegri è andato di traverso al Milan. E non ha creato nemmeno quello stato di leggera euforia che renderebbe più facile, domenica, sorridere, abbracciarsi e dirsi addio, e guardare con fiducia a un domani tutto da scrivere con nuove facce e nuovi nomi. Di guardare a un domani che, anche se in Via Turati non lo ammetteranno mai, in fondo fa un po’ paura.