Più si va in alto e più si tocca il fondo. A pochi chilometri dal Maracanã, l’Olimpiade finisce e inizia un’altra storia. Sporca e disperata. Il ghetto è qui, in cima a salite strette, dove arriva poca luce e nessun sorriso. Città nella città, muri di mattoni rotti che è difficile immaginare siano case. Una sopra all’altra, senza recinti. Nemmeno quelli della disperazione. Non le chiamano “ favelas”, perché qui è un termine che considerano dispregiativo. Ma quelle sono, per tutti. A Rio preferiscono dire: comunidad. Che non rende l’idea, e semplifica il dramma. Per capire bisogna salire. Dieci, venti enormi ammassi di abitazioni, forse di più. Difficile contarle in una megalopoli che non finisce mai.
Cidade de Deus è il nome di quella che guarda dall’alto il Villaggio Olimpico, e ti viene da pensare a quale Dio deve aggrapparsi chi vive senza scarpe e senza speranza. Poi leggi i nomi delle strade: via della Luce, via del Vangelo. E intuisci che la fede supera sempre ogni degrado. Non un’insegna, non uno striscione a cinque cerchi. Ma questo sarebbe il meno, racconta José Carlos De Paula, per tutti Zézé, un omone con un passato da portiere del Fluminense e un presente da educatore che per Action Aid, l’organizzazione internazionale impegnata nella lotta alle cause della povertà e dell’esclusione sociale, cerca di strappare ai narcotrafficanti bambini che nelle loro mani hanno un’aspettativa di vita inferiore ai 25 anni. Vivono tra le lamiere in vicoli strettissimi e luridi, i 65 mila abitanti della “Città”: e parte dei confini della favela sono delimitati da un’autostrada trafficatissima, così passa la voglia di uscire.
Eppure i bambini qui sfoggiano sorrisi disarmanti e alcuni di loro costruiscono aquiloni colorati da vendere in centro. Qui, tra fili scoperti e fogne a cielo aperto, ogni tanto sale qualche auto “normale” che arriva dai quartieri ricchi di Barra. Gente che viene a rifornirsi di droga, o a ingaggiare colf per le ville con piscina che distano solo pochi isolati. « Os humilhados serão exaltados », gli ultimi saranno i primi, sta scritto su un muro ai confini della Cidade, dove stazionano le auto della polizia. Controllano chi esce, consigliano di evitare di farlo a chi entra. Non c’è garanzia di sicurezza oltre questo punto. A Rio c’è un’unità speciale che si occupa delle favelas, la UPP (Unida Policia Pacificadora), ma questo cancro della città di pacificato ha ben poco. In atto però c’è un accordo con le gang, un patto d’acciaio lungo quanto le gare olimpiche.
Nessuno lo ha ufficializzato ovviamente, ma la gente lo sa. Il governo carioca ha chiesto un mese di tregua: niente ammazzamenti, niente spedizioni in centro, niente razzie fino a quando non si spegnerà la torcia. In cambio lo Stato rinuncia ai suoi diritti di imporre la legalità. Si chiude fuori e butta via la chiave. «Ma siamo preoccupati per quello che capiterà dopo – continua Zézé – quando le luci si spegneranno, quando questo pattò finirà…». In tanti a Rio si fanno la stessa domanda, contano i giorni, si preparano al peggio. La tensione sociale non arriva solo dalle favelas, e la grande manifestazione organizzata davanti al Copacabana Palace pochi giorni fa lo ha confermato. Corruzione, povertà, disoccupazione a livelli mai visti e il governo transitorio di Temer che la gente detesta.
Questo brucia sotto l’Olimpiade disorganizzata e precaria di Rio ai piedi della Cidade de Deus. «La cosa grave non è tanto nella mancanza di spirito olimpico tra queste strade disgraziate: è l’assenza totale di ritorno sociale ed di certi grandi eventi sportivi per la popolazione povera brasiliana. Non un posto di lavoro al Villaggio è toccato agli abitanti della favela, non un’infrastruttura in più. Non un biglietto per le gare, e nemmeno un ingresso gratuito per le varie prove delle cerimonie: sono andati tutti ai ricchi e ai politici. E così era stato negli anni scorsi per i Giochi Panamericani e per il mondiale di calcio», racconta ancora Zézé. Più a nord cambiano i numeri e in parte il degrado, ma resta la miseria.
A Rocinha se- condo l’ultimo censimento, vivono 69 mila persone: 150 mila invece secondo le associazioni locali. È la più grande favela del Brasile e forse del Sudamerica, si è sviluppata come i tentacoli di un polipo abbracciando la collina negli anni ’70, per la semplice raeconomico gione che era terra che nessun proprietario avrebbe mai reclamato. Juliana Camara, responsabile di Action Aid, che ci accompagna tra i vicoli, spiega: «Il Comune nasconde i numeri veri per non essere costretto a portare i servizi basici alla comunità». Ma i problemi non possono essere nascosti: «La favela qui è in mano alla fazione Amigos dos Amigos, ma noi siamo rispettati perché offriamo un servizio alla comunità e quindi siamo ben visti». Rocinha significa “piccola fattoria”: 80 anni fa c’era solo quello. Oggi cresce solo immondizia. L’Olimpiade qui non è assente ma vive di striscio, nei disegni dei bambini di un asilo che Action Aid, con il contributo del Coni e degli sponsor azzurri, ha ristrutturato e seguito per regalare sollievo a questi bambini dagli occhi grandi e dal futuro piccolo.
Cerchi storti, immaginati da pastelli dai colori sbiaditi. «Ma l’eredità sociale che questi Giochi lasceranno – continua Juliana – sarà minima. Qui manca tutto, abbiamo solo 4 scuole elementari e finite quelle i ragazzi smettono di studiare. La salute pubblica non esiste: tre ambulatori per 150 mila persone sono nulla. Le donne quando partoriscono devono abbandonare il lavoro, le poche che un lavoro ce l’hanno, perché non sanno dove lasciare i figli». Il governo che in teoria ha investito grande attenzione ai problemi delle favelas, aveva stanziato 1 miliardo di reais nel 2006 (300 milioni di euro) per migliorare sicurezza e condizioni di vita.
«Soldi mai visti qui, per opere mai realizzate o iniziate senza essere finite. Rocinha ha fatto causa allo stato di Rio per sapere che fine hanno fatto quei finanziamenti, chi li ha intascati sulla pelle delle gente che qui muore di fame e di violenza. Ma il processo dura da anni e non importa a nessuno…». L’Olimpiade non sa, non sente. Ma è arrivata proprio dalla favela la prima medaglia d’oro del Brasile, l’altro giorno. Quella di Rafaela Silva nel judo. In lacrime e avvolta nella bandiera verdeoro, ha raccontato con orgoglio la sua vita da ragazza nella rua: «Ero una bambina in un luogo senza scopi di vita e ora sono una campionessa olimpica. Ma io lo dico: sono sempre un’abitante della Città di Dio». A Copacabana la musica suona forte. I Giochi della disparità continuano.