Buenos Aires, 2010. Un campo occupato nei pressi di Lomas de Zamora (© Valerio Bispuri/Contrasto)
Sono le stesse villas miserias di Buenos Aires che il cardinale Jorge Mario Bergoglio visitava e tentava di strappare al degrado con parole e passi di speranza. Voragini di umanità dimenticata dove la vita vale poco, talmente poco da bruciarla con pochi pesos, ingoiando un sassolino bianco dopo l’altro, il paco, residuo della lavorazione della cocaina tagliato con vetro tritato. «Sembra normale cocaina, ma il suo effetto è quindici volte più potente e istantaneo. Una scossa letale». Valerio Bispuri per 14 anni ha documentato con la sua macchina fotografica la produzione clandestina di questa droga a basso costo che sta uccidendo generazioni di giovani in Argentina, nelle favelas brasiliane, e poi in Paraguay, in Perù, fino alla Colombia. Un percorso racchiuso in Paco, a drug story (Contrasto, pagine 124, euro 35,00). «Noi occidentali viviamo dentro un giocattolo», ha detto il fotografo romano. Bambini in un luna park scintillante. La realtà del mondo è invece un’altra. «Bispuri ha attraversato le fogne, l’orrore la morte – annota in uno dei testi del volume, Marco Lodoli –. Ha guardato negli occhi chi non ha occhi, ci ha sbattuto in faccia la verità di un cosmo infetto e disperato, ci ha fatto vergognare del nostro abbonamento televisivo, del nostro conto in banca, del piatto di sushi, della nostra insulsa depressione, della nostra immeritata sicurezza. Un viaggio negli inferi, senza alcuna speranza che presto o tardi riappaiano le stelle, senza alcuna possibilità di riscatto». Dopo Encerrados, in cui Bispuri ha affrontato le umiliazioni dei prigionieri nelle carceri sudamericane, ora un nuovo duro, forte lavoro sulla “maledizione” del paco.
«Credo che la fotografia abbia bisogno sempre di più tempo per arrivare a una profondità – dice Bispuri –. A quell’equilibrio magico tra emozione e realtà. Paco cerca di essere non solo un lavoro di denuncia sociale su una terribile droga, ma anche un’esplorazione antropologica e sociologica di una realtà sudamericana». Una fotografia reale e drammatica in cui ci si può immergere a Milano, al Forma Meravigli, all’interno della mostra Altre storie, altre voci( fino all’8 ottobre, dal mercoledì alla domenica dalle 11 alle 20), in un dialogo visivo (per certi versi un azzardo visivo, tanto è il contrasto fra i due mondi) con un altro lavoro, quello del fotografo di Rovigo, Mattia Zoppellaro, Appleby (Contrasto, pagine 96, euro 45,00), sulle comunità nomadi irlandesi.
Un progetto che prende il nome da una fiera di cavalli che si tiene annualmente nella regione della Cumbria inglese: ogni primo giovedì di giugno, attira oltre 10mila tra rom, gipsy e Irish travellers da tutto il Regno Unito che si incontrano per comprare e vendere cavalli, ritrovare vecchi amici e parenti e celebrare la loro cultura. Affascinato dal forte senso di appartenenza di questa comunità, Zoppellaro, con i colori vividi dei suoi scatti, ha fotografato l’orgoglio di chi ha voluto mantenere intatte le proprie tradizioni nonostante le difficoltà e l’emarginazione. Due spaccati assai differenti, dunque. Due estremi. Storie che vengono da mondi distanti e che proprio nella distanza trovano forse la loro forza. Da una parte i volti della disperazione. Dall’altra la fierezza di una appartenenza. Facce di un unico grande mondo. Diverso, sì. Ma desideroso sempre e comunque di umanità. Fuori dal nostro luna park.