“Daniele interpreta il sogno di Nabucodonosor” Pacino di Buonaguida, “Albero della Vita” - WikiCommons
Nel canto XIV dell’Inferno, ove vengono puniti i superbi bestemmiatori del nome divino, con una delle pene più crudeli - «Sovra tutto ’l sabbion d’un cader lento, / piovean di foco dilatate falde, / come di neve in alpe senza vento» (vv. 28-30) - Dante incontra Capaneo, che rivendica la propria ostinazione nel peccare: «Qual io fui vivo, tal son morto», sì che Virgilio gli rinfaccia il crudo rovello di quella pena: «O Capaneo, in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu punito; / nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito» (vv. 63-66). Avanzando in silenzio, i due pellegrini giungono a un fiumicello rosso sangue, «lo cui rossore ancor mi raccapriccia» (v. 78). La scena cambia e Virgilio segnala a Dante che questa è la più «notabile» meraviglia tra quelle sin lì contemplate: e racconta egli stesso la storia del «Veglio di Creta», che influisce altresì sulla struttura del basso Inferno. Richiamandosi al mito classico, il poeta evoca i regni - favolosa età dell’oro - di Saturno che dominava Creta dall’alto del monte Ida: «Una montagna v’è che già fu lieta / d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida, / or è diserta come cosa vieta» (vv. 96-98). Apprendiamo dunque che il luogo edenico, che Dante ritroverà appunto in cima alla montagna del Purgatorio (quasi figura del monte Ida), è ora 'diserto' come deserto troverà Dante l’Eden in cui gli appare Beatrice.
Ma, superba congiunzione del mito classico con la memoria biblica, in quel monte «sta dritto un gran veglio» il quale volge le spalle a «Dammiata», Damietta, alla foce del Nilo (luogo che vale come simbolo dell’Oriente) e ad un tempo a «Roma guarda come suo speglio» (v. 105). È qui tutta la malinconia del mondo classico che s’affisa sulla nuova Roma cristiana; e infatti la magnifica descrizione del Veglio è tutta una riscrittura del modello biblico: «La sua testa è di fin oro formata, / e puro argento son le braccia ’l petto, / poi è di rame infino a la forcata; / da indi in giuso è tutto ferro eletto, / salvo che ’l destro piede è terra cotta» (vv. 106-110). Si tratta della ripresa della visione avuta in sogno da Nabucodonosor, il cui senso viene a lui disvelato dal profeta Daniele: «Tu stavi osservando, o re, ed ecco una statua, una statua enorme, di straordinario splendore, si ergeva davanti a te con terribile aspetto. Aveva la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte d’argilla. Mentre stavi guardando, una pietra si staccò dal monte, ma senza intervento di mano d’uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che erano di ferro e d’argilla, e li frantumò.
Allora si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro e divennero come la pula sulle aie d’estate; il vento li portò via senza lasciare traccia, mentre la pietra, che aveva colpito la statua, divenne una grande montagna che riempì tutta la terra» (Dan. 2, 3135). Ecco, tale è la fragilità della storia umana la quale, benché aurea nella sua divina e alta origine, si corrompe nei secoli e poggia su fragile argilla; mentre «la pietra che i costruttori hanno scartato / è diventata la testata d’angolo» (Salmo, 117, 22; Mt., 21, 42; Atti, 4, 11;) e ha fatto della terra il monte di Dio. Questa possente rilettura del testo biblico giustifica la struttura intera dell’Inferno, poiché «ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta / d’una fessura che lagrime goccia» (vv. 112-113). La montagna trasuda lacrime, molto più che il ricettacolo di questa nostra «lacrimarum valle» ricordata nel Salve, Regina; e dai rivoli di dolore nascono i quattro fiumi del profondo inferno: «Lor corso in questa valle si diroccia; / fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; / […] / Infin, là dove più non si dismonta, / fanno Cocito... » (vv. 115-119).
È forse il punto, in Dante, di più stretta unione tra eredità classica e figurazione biblica, sotto il segno del virgiliano «sunt lacrymae rerum et mentem mortalia tangunt » ( Eneide, I, 462: 'Lacrime sono le cose, e il patire dei mortali segna la mente'). In quella dolente statua sono raccolti, insieme alla storia dell’umanità, i rivoli nascosti delle lettere occidentali: Plinio il Vecchio ricorda il rinvenimento, dopo un terremoto, all’interno di una montagna dell’isola di Creta, di un uomo gigantesco ( Nat. hist. VII, XVI: «in Creta terrae motu rupto monte inventum e- st corpus stans XLVI cubitorum»), traccia del quale Dante trovava altresì in sant’Agostino ( De Civitate Dei, XV, 9). Si delinea qui la profonda compassione di Dante sulla vicenda umana, tale che gli impedisce talvolta di interrogare le anime dannate; volgendosi a Virgilio aveva appena detto, contemplando l’«anima lesa» di Pier delle Vigne: «Ond’io a lui: 'Domandal tu ancora / di quel che credi ch’a me satisfaccia; / ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora'» ( Inf. XIII, 82-84).
È il Leitmotiv dolente sulle pene dei dannati, che portano il pellegrino a perdere conoscenza, e a cadere, davanti al supplizio d’amore di Paolo e Francesca: «Al tonar de la mente, che si chiuse / dinanzi a la pietà d’i due cognati, / che di trestizia tutto mi confuse, / novi tormenti e novi tormentati / mi veggio intorno... » ( Inf. VI, 1-4). L’uomo siede sulla 'montagna di lacrime' della storia che il reverendo John Stuart saprà riscrivere in tempi moderni: «We all, some time or other, stand on this mount of tears», 'Noi tutti, prima o poi, veniamo a trovarci su questo monte di lacrime. Non possiamo farci niente. Se abbiamo una sensibilità cristiana, non possiamo guardare all’indifferenza, alla volgarità, all’incredulità, al disprezzo di tutto ciò che è buono e santo, se non con uno spirito colmo di lacrime» (Sermons, IV; Edinburgh 1889).
Pochi decenni prima, una pagina del nostro Risorgimento porta impressa quella dolorosa memoria: «Accosto alle sue mura, a ponente, s’alza un monticello, e sovr’esso siede l’infausta rocca di Spielberg, altre volte reggia de’ signori di Moravia, oggi il più severo ergastolo della monarchia austriaca» ( Le mie prigioni, cap. LVII); poche settimane prima che Silvio Pellico vi venisse rinchiuso, un rapporto del sopraintendente Smerczeck del 16/2/1822, definiva: «Nicht Spielberg: Weinenberg»: 'non la montagna del gioco, la montagna delle lacrime'. Dal monte che rinserra il Veglio di Creta a tutti gli Spielberg di ieri e di oggi, sempre più il dolore gela in noi e si rapprende, accecandoci, sopra gli occhi chiudendosi «le ’nvetrïate lagrime del volto» ( Inf. XXXIII, 128).