Il cardinale Carlo Maria Martini all'incontro con i cresimandi del 25 maggio 2002 a San Siro - Fotogramma
Fratelli e sorelle. Ebrei, cristiani, musulmani è il nuovo volume delle Opere di Carlo Maria Martini, oggi in uscita (Bompiani, pagine 1136, euro 25,00). Curato e introdotto da Brunetto Salvarani, il libro propone una prefazione di Walter Kasper (di entrambi i contributi proponiamo un estratto) e raccoglie tutti i testi collegati all’interesse del cardinal Martini per i dialoghi ecumenici e interreligiosi, a partire dai rapporti con il mondo ebraico, per continuare con le iniziative ecumeniche e per chiudere con gli interventi connessi alle relazioni con le altre religioni (soprattutto l’islam, ma anche le religioni orientali). Sono relativi soprattutto al periodo dell’episcopato (1980-2002), ma anche antecedenti e successivi.
Dalla cattedra della vita
Walter Kasper
Il cardinal Martini è stato giustamente definito “uomo del dialogo”. Se questa definizione non deve rimanere uno slogan vuoto e facilmente abusato, ci si deve chiedere in qual modo Carlo Maria Martini abbia inteso il dialogo. Di sicuro il dialogo era per lui soprattutto un’attraente caratteristica umana, non una sorta di buonismo, non una manifestazione alla moda, non un irenismo o persino un atteggiamento sincretistico e relativistico. La seria filosofia del dialogo di Martin Buber (1878-1965) e di Emmanuel Lévinas (1906-1995) era molto apprezzata in quegli anni. Decisivo per Martini, stimato biblista, fu soprattutto il fatto che il dialogo è una caratteristica fondamentale delle testimonianze della Rivelazione sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento e perciò è ancorato all’essenza più profonda della stessa fede cristiana. Martini proveniva dalla scuola del cardinale Augustin Bea (1881-1968), che già durante il pontificato di papa Pio XII, in qualità di professore e rettore dell’Istituto biblico, aveva propugnato il diritto di cittadinanza dei metodi storico-critici nella scienza biblica cattolica. Durante e dopo il concilio, è stato uno dei più risoluti pionieri dell’apertura ecumenica e della svolta storica nell’atteggiamento della Chiesa verso l’ebraismo. Inoltre, il cardinale Bea ha avuto un ruolo decisivo nella stesura della costituzione dogmatica sulla “Divina rivelazione” Dei verbum, che ha sottolineato in modo efficace il carattere dialogico della rivelazione biblica. La costituzione Dei verbum intendeva la Rivelazione non come comunicazione e istruzione di verità soprannaturali, ma come l’automanifestazione di Dio. «Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (DV 2). In modo corrispondente, la trasmissione della Rivelazione da parte della Chiesa non è una mera consegna di insegnamenti. Ciò avviene per il fatto che Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la Chiesa, la Sposa del suo Figlio diletto, attraverso lo Spirito Santo (DV 8). La lettura della Scrittura (Lectio divina) accompagnata dalla preghiera dovrebbe quindi diventare un colloquio tra Dio e l’uomo (DV 25). Così facendo, la Chiesa deve essere attenta ai segni dei tempi, per discernerli e interpretarli alla luce della parola di Dio (GS 4; 11). In questo molteplice senso, la Chiesa deve ascoltare la parola di Dio e, in virtù dell’ascolto, deve proclamarla con ferma fiducia (DV 1).
Solo su questo sfondo si può apprezzare adeguatamente il carattere dialogico dell’opera di Carlo Maria Martini. Era un amante della Bibbia e sapeva come far rivivere la Parola della Bibbia e farla risplendere in modo nuovo e inaspettato nel dialogo, anche in quello con i non credenti, come, ad esempio, con Umberto Eco (1932-2016). In tal modo si tenne lontano da ogni fondamentalismo estraneo alla Bibbia, così come da un modernismo carico di spirito del tempo (Zeitgeist) e furbescamente accomodante. Egli stesso distingueva il dialogo proveniente dal profondo del cuore dal dialogo interreligioso ed ecumenico degli esperti, così come dal dialogo ufficiale dei rappresentanti delle diverse Chiese e religioni. Entrambi i tipi di dialogo sono ovviamente importanti, ma essi non erano, o almeno non erano principalmente, una sua preoccupazione personale. Per lui l’ascolto della Bibbia era sempre legato all’ascolto delle persone e dei loro bisogni, e per lui queste persone non erano solo quelle colte, ma anche quelle semplici, credenti e non credenti, laici e preti con i loro bisogni, e non ultimi i giovani con le loro domande.
Nel segno della gratuità
Brunetto Salvarani
Alla luce del processo di revisione delle dinamiche dialogiche innescato da Martini – «un esempio di dialogo da parte del magistero» nella Chiesa italiana – dobbiamo ammettere che sarebbe davvero impresa improba ricavarne un bilancio adeguato alla mole del lavoro e all’originalità del percorso tracciato. Un percorso, in ogni caso, illuminato da due fari costanti, nel suo dipanarsi ecclesiale: il fondamento sulla parola di Dio contenuta nella Bibbia, da un lato, e il lavoro sulla ricezione delle acquisizioni conciliari, dall’altro. Certo, occorre in primo luogo essere grati al cardinale, da parte di chi, nel corso dell’ormai lunga stagione del postconcilio, ha compreso che le Chiese si stanno giocando una buona dose della loro credibilità pubblica sulle loro capacità di rispondere alle sfide del pluralismo culturale e religioso con una strategia all’altezza dei tempi. Perché, se il dialogo è il rischio del non ancora e dell’altrove, esso non nega le differenze e non le annulla; anzi, richiede le differenze e le mantiene pur senza ergerle a idoli inscalfibili, ma abbatte gli steccati e costruisce ponti sulle voragini che abbiamo scavato – lungo i secoli – per separare noi dagli altri e gli altri da noi. Invita apertamente e mettersi in gioco. Non rivendica diritti di verità assoluta (teologica o storica), né tanto meno si arroga il diritto di determinare le scelte dell’altro e non rinfaccia né richiede nulla all’altro. Il dialogo resta, sempre e primariamente, la cifra distintiva della carità, della speranza e della gratuità.
Così, a monte, risulta innegabile lo sforzo martiniano in funzione di una Chiesa che – montinianamente – si faccia dialogo, e della consapevolezza che il tema del dialogo non dovrebbe essere derubricato nelle varie ed eventuali dell’elaborazione teologica; nonché gli effetti ottenuti, in chiave locale e non solo. A valle, peraltro, è doveroso rimarcare che il suo magistero sul dialogo ha generato pensiero e trovato sì interpreti e interlocutori capaci e convinti sul territorio diocesano, ma anche, verrebbe da dire inevitabilmente, resistenze, incomprensioni e pietre d’inciampo, su scala locale, nazionale e internazionale. Per queste ragioni, oltre che per il rapidissimo trasformarsi degli scenari sociali e culturali nella presente fase storica, refrattaria a ogni semplificazione, la portata del lascito martiniano rende complicata l’impresa di rinvenire un’immagine unica che racchiuda la sua fede e il suo ministero. La sua eredità, chiamata ora a farsi seme da raccogliere e far fruttificare, sui temi di cui si è detto è senz’altro pesante e insieme complessa, e non ci si può che augurare che accompagni ancora a lungo la sua Chiesa ambrosiana e la Chiesa europea tutta. Ecco perché, senza concludere ma tenendo la porta socchiusa, chiudiamo cedendo la parola a un suo caro amico, Paolo De Benedetti, che meditando sul significato della sua morte annotava: «Io credo, se così si può dire ( ki-vjakhol, espressione ebraica per giustificare uscite audaci), che Dio abbia preso con sé Carlo Maria Martini per un bisogno di conversare con lui». Una considerazione sapiente che è lecito tradurre così: per poter dialogare con lui.