“Narciso”, tela la cui attribuzione a Caravaggio da parte di Longhi è oggi oggetto di discussione da parte degli studiosi Roma, Galleria nazionale di arte antica di Palazzo Barberini
Il primo santo del calendario post moderno non è più Prometeo, come annunciava Marx, proiettando sul soggetto collettivo la potenza dell’auto-realizzazione umana. È Narciso, come aveva enunciato Max Stirner (1806-1856), prefigurando l’unicità individuale di quel-l’auto realizzazione. Prometeo annuncia la decostruzione della religione, sfidando 'il dio' dell’antico assoggettamento, in favore degli uomini. La ribellione è ancora in favore dell’umano, almeno, e disposta a pagare il prezzo della trasgressione. Narciso annuncia la decostruzione della società, ma non vuole subirne alcuna conseguenza.
Narciso vive dell’amore del-l’altro, ma se ne attribuisce il merito esclusivo: non riconosce e non restituisce nulla. Narciso non lavora e non si sacrifica, non ci pensa neppure. L’Unico di Stirner non vuole avere altro fondamento che se stesso, e non pretende di essere il fondamento per nessuno. Questo tratto potrebbe farlo sembrare politicamente corretto, dato che non vuole essere assoggettato, ma nemmeno pretende di assoggettare. In realtà l’Unico, che vuole essere semplicemente se stesso e determinarsi da sé, è il parassita perfetto. Il perfezionamento della sua anaffettività è pericoloso per noi, e dannoso per lui stesso.
L’Unico, che sembra il trionfo individuale della volontà di potenza, in realtà è il brodo di coltura dell’indebolimento della volontà, destinato a consumare lui stesso. Questo non gli impedirà di essere attraente e fascinoso, nella sua immagine di eterno adolescente che si sottrae a ogni legame e si fa da sé. Per rimanere tale, e vincere la disperazione crescente di una compiutezza che gli sfugge, sarà pronto a tutto: dalla finzione cosmetica alla dipendenza chimica, dal godimento dell’impotenza altrui al gregarismo irresponsabile del branco. Mi domando, a proposito di questa odierna mescolanza del carattere anaffettivo e di quello distruttivo, se non ci sia una correlazione profonda tra l’affermazione pseudosecolare del monoteismo del sé e il fondamentalismo pseudoreligioso dell’annullamento dell’altro. L’elemento comune è l’impressionante regresso della pietas erga hominem, che abita in forme diverse i due mondi, apparentemente in conflitto fra loro. Il tratto anaffettivo, il vuoto del puro non amore, stabilisce un nesso rivelatore.
Non c’è passione, in questo nuovo odio che si vorrebbe religioso; né desiderio, in questa nostra ossessione di sé che si vorrebbe razionale: c’è istupidimento mediatico, e fredda disperazione. Dobbiamo guardare proprio alle giovani e giovanissime generazioni per cogliere i sintomi di questa affinità, oltre le apparenze. La stessa mancanza di orrore per l’avvilimento e la morte dell’altro essere umano filtra qua e là (ancora del tutto incompresa nella sua allarmante sintomaticità) dall’accanimento anaffettivo del branco sul clochard indifeso, sul compagno handicappato, sull’adolescente stuprata, sulla vittima designata dai social. È la stessa che ci colpisce nel vuoto affettivo dell’adolescente religiosamente radicalizza- to, nel quale la pulsione mediatica alla celebrazione del sé si è aperta un varco nella sublimazione religiosa del nichilismo.
L’impressionante maschera anaffettiva dei bambini soldato, sublimata nell’icona dell’esecutore professionale di un omicidio a sangue freddo, è la rappresentazione del quietismo emozionale che può assumere la postura narcisistica del carattere distruttivo. Non si ottengono questi risultati senza ingegneria della perversione. Questa regìa non è nelle corde dei bambini e degli adolescenti. La perversione del godimento, che induce a incorporare il lavoro della morte, è contaminazione e alienazione calcolata dell’ordine degli affetti, a opera delle potenze mondane che si nutrono di sacrifici umani. La potenza dell’ego chiede di essere verificata nella debolezza dell’io altrui: perciò, quando l’autorealizzazione di sé diventa il tema ossessivo di un’ingiunzione assoluta, anche la derealizzazione dell’altro lo sarà. L’invidia dei divini si insinua nello spirito della competizione fra gli umani, e la sovrana insensibilità della loro apatheia si propone come un modello: la neutralizzazione emotiva della compassione per l’altro diviene un complemento necessario del culto della propria identità. L’autorealizzazione posta come fondamento umanistico e principio etico è il problema, non la soluzione.
La mia convinzione è che, se si inquadra esattamente il nodo, non è poi così difficile cambiare rotta. Perché non si tratta di cancellare la dignità del soggetto libero e consapevole, sacrificandola all’alterità o alla collettività. Non è una questione di democrazia o di ascesi. Si tratta di uscire - mentalmente, anzitutto - dall’incantamento di Narciso, impasticcato e afasico, rompendogli lo specchio e mandandolo a lavorare. Scoprirà di essere migliore, sarà felice. (E anche noi).