Che la musica sia un linguaggio universale è una frase ripetuta e sentita tante volte da essere diventata un luogo comune. Non lo è invece per i 250 musicisti che suonano nelle orchestre e bande multietniche italiane. I numeri che emergono dalla ricerca che Francesco Fiore ha presentato all’ultima edizione del Mei, il Meeting delle etichette indipendenti di Faenza: diciotto gruppi (con un organico variabile tra gli 8 e i 25 componenti) provenienti da 30 paesi ovvero, oltre all’Italia, Albania, Argentina, Australia, Bangladesh, Brasile, Cile, Cina, Colombia, Cuba, Ecuador, Giappone, Grecia, India, Iran, Libano, Marocco, Messico, Palestina, Perù, Romania, Senegal, Serbia, Svezia, Svizzera, Stati Uniti, Tunisia, Ucraina e Ungheria. «Sono rappresentati tutti i continenti – racconta Fiore, a sua volta direttore della Med Free Orkestra, diciassette musicisti e cinque lingue diverse con base a Roma, che con sei diverse realtà è la città più ricca di orchestre multietniche – Le aree numericamente più rappresentate sono quella africana e l’America Latina, seguite dal Medio Oriente». Dall’ormai celebre Orchestra di Piazza Vittorio, la capostipite di tutta la schiera, all’Orchestra di Via Padova a Milano, la Banda Adriatica di Lecce o l’Orchestra Multietnica di Arezzo, è un fenomeno che fa dell’Italia la nazione europea con la maggiore presenza di orchestre e bande multietniche: «Questo grazie ai flussi migratori recenti. In Europa esistono realtà simili ma il nostro primato sta nel fatto che negli altri stati i membri sono immigrati di seconda o terza generazioni mentre i nostri musicisti sono tutti di prima generazione, arrivati da altri paesi con tutte le problematiche dell’immigrazione in Italia». Alle spalle ci sono anche storie tragiche: «In alcuni casi è capitato che le orchestre hanno cambiato la vita di questi ragazzi, persone istruite, diplomati e orchestrali nei paesi d’origine, scappati per essere liberi o semplicemente restare vivi. Sono usciti dall’irregolarità, grazie ai compagni hanno trovato un lavoro. Salvati, letteralmente, dalla strada».La bellezza di questi progetti è il presupposto dell’integrazione, che avviene reciprocamente grazie al codice universale dei suoni: «L’integrazione dal punto di vista musicale – prosegue Fiore – è più semplice perché la lingua è comune a tutti. Ogni banda la gestisce in modo differente e così dà vita a una realtà unica. Ogni gruppo, infatti suona un genere musicale diverso, ha una storia diversa, esprime una cultura diversa». La carta di identità è il suono che ne esce: «È un’idea che si declina in modi diversi, una tavolozza di colori musicali. Noi, ad esempio, cerchiamo di mettere tutte le anime in una stessa canzone, fatto dal punto di visto tecnico tutt’altro che facile. Altri fanno riferimento a macroaree culturali, altri ancora fanno addirittura punk rock». C’è l’Orchestra del 41° Parallelo, che raccoglie donne dal Mar Caspio all’Atlantico. O la Esquilino Young Theatre Orchestra, fondata da Moni Ovadia e composta da bambini, migranti (o di seconda generazione) dai 10 ai 14 anni.Molte nascono in luoghi considerati difficili, dove la componente multietnica è "ingombrante", come l’Orchestra di Porta Palazzo a Torino o la Banda di Piazza Caricamento a Genova. O la stessa Orchestra di Piazza Vittorio, nata a Roma nel quartiere Esquilino nel momento drammatico degli anni della Bossi Fini, e divenuta il modello per tutte le altre. Il debutto avvenne il 24 novembre 2002, con il concerto di chiusura del Romaeuropa Festival. Esattamente dieci anni fa. «Non mi aspettavo di mettere in circolo un virus con queste capacità di riproduzione – racconta Mario Tronco, direttore e anima dell’Orchestra di Piazza Vittorio – Questi dieci anni ci hanno dato tanto. L’Orchestra ha rappresentato l’Italia in festival internazionali: portare il nome dell’Italia a Parigi o a New York con un gruppo di immigrati è un messaggio forte e non scontato. Siamo ambasciatori di un Paese diverso da quello che si legge sui giornali: delle veline, degli scandali, delle leggi xenofobe». Ma oggi come allora l’Orchestra di Piazza Vittorio trova una grande accoglienza da parte della cittadinanza e il disinteresse delle istituzioni: «Abbiamo sempre lottato per avere riscontro ufficiale per far diventare l’organico stabile e non dipendere dai flussi dell’economia mondiale o dai permessi di soggiorno. Non è mai stato possibile. Pensi che non abbiamo un posto fisso dove provare. Da un anno e mezzo siamo residenti al Parco della Musica. Prestigioso, certo, ma anche scomodo: dobbiamo infilarci negli spazi lasciati dalle grandi orchestre. E soprattutto è lontano dalle ragioni d’essere dell’orchestra, che si radica nel quartiere, nel territorio. Non è la nostra casa». Il rammarico di Tronco ha un termine di paragone: «A Lisbona abbiamo fatto nascere nel quartiere di Mouraria l’Orchestra Todos, una "figliastra" di quella di Piazza Vittorio. Ha già un posto fisso per le provo grazie al sostegno del Comune e della Fondazione Goulbenkian. In meno un anno soltanto: è nata nel settembre 2011. Per il resto per la nostra orchestra è solo gioia». E nel frattempo il quartiere più multietnico di Roma «è diventato anche radical chic – conclude scherzando Tronco –. Nel mio palazzo adesso abitano Garrone e Sorrentino. Non so se sia merito o colpa dell’orchestra…».