Il Museo di Capodimonte a Napoli
Raramente ci pensiamo, ma ogni museo possiede un mondo sommerso. Sono i depositi, occupati da opere che per anni, per decenni e talora per sempre restano celate al pubblico, fino a diventare come invisibili. Se è vero che le opere d’arte sono corpi vivi, che raccontano storie, di vita e d’anima, pensieri, emozioni che attendono il partecipe interesse dello spettatore, è suggestivo immaginare i loro sguardi che ci interpellano nel silenzio di magazzini deserti e chiedono d’essere riportati alla luce.
Sono 1220 le opere che oggi rivedono la luce in dieci sale del Museo di Capodimonte di Napoli, per la mostra Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere, provenienti dai cinque magazzini della struttura (Palazzotto, Deposito 131, Deposito 85, Farnesiano e Gds, il Gabinetto dei disegni e delle stampe) e visibili al pubblico fino al prossimo 15 maggio.
La mostra non segue un criterio cronologico, testimonia un semplice intento espositivo, ispirato dalla tipologia dei manufatti, dalla loro storia, dal riferimento tematico e soprattutto della loro bellezza. Lo stesso percorso dell’esposizione, emblematicamente, rimanda anche ai depositi di provenienza delle opere, estraendo da essi, ma senza impegno, un qualche motivo conduttore: quello del paesaggio, per esempio, o delle armi e dei tessuti per il Deposito 131, il genere storico per il Deposito 85. Sono lo stupore e la curiosità, in definitiva, a sovrintendere alla selezione: un non criterio, si direbbe, se si pensa a una modalità scientifica di comporre una mostra, voluto per restituire al visitatore tutta la freschezza dei ritrovamenti, l’intensità di sguardo di scoperte inattese.
Dietro l’iniziativa c’è un progetto, intrapreso lo scorso anno dal direttore di Capodimonte, Sylvain Bellenger, allorquando fu chiesto a dieci personalità di diversa competenza professionale di reinterpretare il museo con una personale selezione di opere da esporre al pubblico. Ne venne la mostra Carta Bianca. Capodimonte Imaginaire, una «sfida al principio costitutivo del museo», si scrisse nell’occasione, un indirizzo di libertà fruitiva, di creativa partecipazione al mistero dell’arte, di spostamento dell’idea stessa di spazio espositivo dalla parte dello spettatore. Il secondo atto di questo ripensamento museologico è l’odierna operazione, intesa a presentare il volto più segreto di una struttura museale.
Si sa, l’allestimento di un museo è dovuto alle scelte di un direttore in un determinato periodo storico; scelte che, al di là dei criteri dello studioso, risentono inevitabilmente del gusto del tempo e dei condizionamenti pratici e contingenti degli ambienti. D’altra parte un’opera vista resta spesso nella memoria del visitatore legata al sito, a quella sala, la si ricorda in quel contesto, e in quel luogo la si vorrebbe rivedere.
L’attuale iniziativa punta a un fronte diverso della logica espositiva. Suggerisce una più libera esplorazione, da parte dello spettatore, alimenta il senso individuale della ricerca. La terza fase della progetto avrà luogo il prossimo anno, sotto il titolo C’era una volta Napoli. Storia di una grande bellezza, con il palese intento di ripartire dal territorio, di orientarsi verso le risorse culturali e antropologiche della città, catturando direttamente, all’interno del dialogo con l’arte, i gusti e le passioni della gente.
Oggi frattanto Capodimonte si confronta con i suoi depositi, orientando la lente sulle collezioni e sulle loro provenienze, sulle storie che ne hanno determinato la straordinaria sedimentazione, sullo stato di conservazione delle opere (è uno dei criteri dirimenti della scelta, implicante una maggiore attenzione ai problemi di restauro e di conservazione). Promossa dal Museo e Real Bosco di Capodimonte con l’organizzazione di Electa, curata da Maria Tamajo Contarini e Carmine Romano, l’esposizione annovera oggetti di grande interesse, come quelli esotici del XVIII secolo che il cartografo James Cook (1728-1779) aveva recuperato durante i suoi viaggi in Oceania e che donò a Ferdinando IV di Borbone per il tramite dell’ambasciatore lord Hamilton.
Sono poi esposti mobili, ceramiche, arazzi e manufatti vari della vita di corte, accantonati dopo che nel 1957, soprintendete Bruno Malajoli, la Reggia diventò a tutti gli effetti una Pinacoteca. Vi sono rare porcellane di Meissen e Richard Ginori e opere della collezione Farnese, acquisiti intorno alla metà degli anni Novanta e provenienti dalla “Gallerie delle cose rare” di Parma. Vi sono dipinti di Salvator Rosa, Bernardo Cavallino, Annibale Carracci, Guido Reni, Mattia Preti e tanti altri.
Una sezione è dedicata all’Ottocento privato, a cura di Serena Mormone e Linda Martino, con oltre duecento dipinti, sculture, oggetti d’arredo, tessuti e tendaggi che ricreano l’intimità di una appartamento privato della corte. Opere mai viste, o viste talora in sporadici allestimenti di piccole mostre tematiche. Un corpus con cui Capodimonte, con l’Università Federico II, avvia un progetto di digitalizzazione dell’intero patrimonio museale, allineandosi con le maggiori strutture espositive internazionali.