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Ci sarà un prima e un dopo pandemia per i musei italiani? Già nel pieno del primo lockdown era apparso chiaro come il momento fosse un formidabile incubatore per l’evoluzione della presenza digitale della cultura. Il XII Rapporto Civita dal titolo “Next generation culture. Tecnologie digitali e linguaggi immersivi per nuovi pubblici della cultura”, pubblicato in questi giorni da Marsilio – grazie a una serie di indagini e ricerche effettuate nel pieno della crisi pandemica, con gli istituti culturali completamente chiusi e poi proseguite nelle fasi di progressiva riapertura – lo conferma tra luci e ombre.
Come c’è già stato modo di osservare, i musei sono stati costretti a reinventarsi e abitare in modo attivo lo spazio digitale, non come una appendice ormai obbligata ma una dimensione esplosa del museo stesso, mettendo in evidenza il fatto che un museo prima di essere un edificio con un contenuto è un dispositivo culturale e sociale. Lo hanno fatto in modo un po’ caotico, ma lo hanno fatto tutti o quasi.
«Un vero e proprio digital boom » lo definiscono Barbara Landi e Anna Maria Marras di Icom, la rete mondiale dei musei, che hanno messo a confronto una trentina di ricerche diverse, tanto nazionali quanto internazionali: «In tutti i sondaggi – scrivono – viene confermato l’aumento dell’offerta digitale dei musei rivolta principalmente a un’intensificazione delle attività sui social media e alla realizzazione di nuovi contenuti come tour virtuali, video e podcast. Questa produzione digitale non è però spesso accompagnata dalla presenza di una strategia apposita, di adeguate figure professionali e di investimenti a lungomedio termine».
Il digitale, invece che ridurre, forse ha aumentato il divario tra grandi e piccoli musei. Se realtà virtuale e tecnologie immersive (ritenute sempre più fondamentali) richiedono investimenti importanti, anche quando economicamente accessibile e di facile uso la comunicazione digitale richiede competenze specifiche e risorse umane ad hoc che realtà ridotte spesso faticano a permettersi. Ma dalla ricerca emerge che anche i musei più grandi hanno riversato sul digitale figure di norma impegnate in altro, segno che su questo fronte a essere impreparati non erano solo i piccoli. E se l’assenza di prospettiva strategica e l’improvvisazione appaiono equamente distribuite, allo stesso modo la corsa alla presenza online è avvenuta non di rado in assenza di una riflessione sul contenuto e sul mezzo stesso. Quello con cui i musei si devono confrontare, concludono Landi e Marras, è un mondo «in cui non è sufficiente offrire l’accesso e raccontare, ma è sempre più fondamentale coinvolgere, rendere partecipi le persone. In questo senso sono importanti gli strumenti e i metodi di citizen curation: sono i cittadini, sono le persone che interpretano, connettono e raccontano testi, immagini, oggetti. Le offerte devono poi consentire l’esperienza, la personalizzazione, la possibilità di scambiare informazioni».
Il digitale amplia gli strumenti in dotazione ai musei per configurarsi come luoghi che attivano e vivono processi di relazione. L’era di una fruizione frontale e di una pedagogia vecchio stile che uniforma patrimonio e pubblico sembra essere finita, è il tempo di pubblici molteplici e mediazioni personalizzate. Eppure anche su questo fronte c’è molto da lavorare. Una parte della ricerca è dedicata ai “consumi digitali degli italiani durante il lockdown”. I sondaggi hanno rilevato che il 72% delle persone ha visitato siti o profili social di musei, italiani o stranieri; i contenuti preferiti sono video (76%), foto (56%), conferenze e seminari online (34%): molto scarso il gradimento per i tour virtuali (2%), sui quali invece i musei sembrano puntare. Ma nonostante la potenziale interattività, al momento, la comunicazione rimane a una sola direzione: il 73% di chi ha visitato siti e social si è astenuto da qualunque tipo di feedback. Questo anche perché, come si diceva, la grande maggioranza dei musei italiani non dispone di figure stabilmente dedicate alla gestione delle attività digitali.
C’è però forse un problema più profondo. Il primo ad avere un’idea antiquata di museo è proprio il pubblico. Tra i diversi profili di utenti che hanno goduto l’offerta digitale, dagli “appassionati” agli “occasionali”, l’immagine che gode stima incontrastata è del museo come “Tempio” (tra il 33% e il 40%). Godono di minore popolarità “Officina/Laboratorio”, “Piazza” e (l’altrettanto vetusto) “Scuola”. È anche il frutto di una retorica che ha trasformato l’arte e la cultura in un culto le cui cattedrali, luogo di laiche rivelazioni o salvezze, sono appunto i musei. Ma in un tempio si entra in silenzio. I musei, analogici o digitali, abdicano a se stessi se non sono luoghi di parola.