Vincenzo Musarra Tubi nel suo laboratorio a Capo d’Orlando
Parte l’incipit della Rapsodia in blu di Gershwin. Le dita scivolano sui fori dello strumento, il clarinettista glissa e il suono prorompe in tutta la sua squillante e jazzata carica emotiva. Siamo nel casalingo atelier di Vincenzo Musarra Tubi, a Capo d’Orlando. Clarinettisti, oboisti, fagottisti e sassofonisti non vengono dal Maestro per far riparare i propri strumenti o per sostituirne i cuscinetti, ma per conquistare l’optimum sonoro. Se il suo demone è il perfezionismo acustico, la sua filosofia è un mix di pazienza, curiosità e ricerca all’insegna dell’artigianalità. Tutto è cominciato con la scoperta di un alchemico composto per risolvere un cronico problema: la durata e l’affidabilità dell’ancia, quel pezzetto di legno (semplice o doppio) che vibra sotto la spinta del musicale soffio dello strumentista. Ingegno, arte e natura: è questa la triade che ha messo d’“accordo” Musarra e la sua mission impossible.
Nasce dal parallelo amore per la musica e per le piante (il suo giardino è un festival della vegetazione mediterranea, un autentico “florilegio” di varietà ed essenze esaltate dal suo pollice verde) l’innovativo e misterioso composto capace di donare alle ance una tale vitalità da rendere il suono di clarinetti, oboi, fagotti e sassofoni pieno, corposo ed equilibrato. «Sono un clarinettista – spiega – ma nella vita ho il privilegio di poter stare sempre a contatto con le piante, immerso nella natura. Di ciò ho fatto tesoro e, di esperimento in esperimento, ho elaborato un estratto vegetale capace di rigenerare quel prezioso pezzetto di legno così importante per chi suona determinati difficili strumenti. Insomma mi sono fidato della natura e mi ci sono affidato, mettendoci soltanto un po’ di intuito, tanta pazienza e un grande amore per la musica e per il suono».
Un composto che non poteva non chiamarsi, con un anglofono gioco di parole, “Regenerance”. Una linfa vitale che nutre la fibra, una sorta di pozione magica in cui a intingere le ance sono da tempo musicisti del calibro di Francesco Di Rosa (primo oboe solista dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia), Pietro Gangemi (docente di clarinetto al Conservatorio “Corelli” di Messina) e Giuseppe Davì, primo fagotto del Teatro Massimo di Palermo. «Lo senti subito quando un’ancia non funziona più. Cambia il suono, l’intonazione ti abbandona e lo staccato s’inceppa – spiega Davì –. In un giorno di sconforto decisi di provare quel composto sperimentale di cui mi avevano fatto avere un campione. Messe dentro il barattolino due ance ormai trapassate, aspettai qualche minuto che la sostanza, come mi avevano detto, si insinuasse tra le fibre distaccate delle palette dell’ancia per rigenerarle e colmare i solchi creati dall’usura. Contro ogni previsione e scetticismo, ora so che le ance possono essere rigenerate».
Un composto naturalmente segreto, come si conviene alle vere grandi ricette. Una misteriosa alchimia per un’agognata centratura armonica e timbrica sulla via dell’eufonia. Una controffensiva anche verso l’incalzare della plastica. Sono molti infatti i clarinettisti e sassofonisti che da tempo si sono convertiti alle ance artificiali, proprio per ovviare alla eccessiva “umoralità” di quelle in legno. E proprio di legni Musarra ne ha testati a decine per un altro suo successivo inseguimento della perfezione sonora. Legni di ogni tipo, dall’arancio amaro all’ebano della Tanzania, dal Cocobolo al palissandro Santos, dal Paduk al Veen senegalese, passando per il Bois de rose e la radica d’ebano africano. Così, seguendo la stessa filosofia, messo a punto il composto che rigenera le ance, Musarra si è concentrato sul barilotto, quella parte del clarinetto che sta tra l’imboccatura e il pezzo superiore con le chiavi.
«Mi sono reso conto nel corso degli anni, suonando e ascoltando, che questa parte dello strumento ha una funzione sonora molto più importante di quanto si possa pensare – spiega –. Allora mi sono messo a sperimentare legni più o meno pregiati, legni lavorati e selezionati, a cui ho apportato innovative incavature e levigature. Tra i tanti barilotti che ho prodotto, uno molto particolare è in legno di arancio amaro siciliano con vent’anni di stagionatura. Dona un grande equilibrio armonico, timbro e colore al suono. Lo utilizzano ormai musicisti delle più importanti orchestre internazionali». Tra i primi a rinunciare al proprio collaudato barilotto per quelli del “rivoluzionario” Musarra c’è il primo clarinetto solista del Teatro alla Scala Mauro Ferrando.
«Ho riscontrato miglioramenti nella proiezione del suono e nell’intonazione, tanto che si può suonare molto forte senza calare – spiega –. E soprattutto ho notato una pulizia del timbro che mi permette di suonare anche ance che probabilmente avrei scartato». La voce di un qualsiasi strumento musicale è la vibrazione che nasce al suo interno, si amplifica e si diffonde. Ma come? Musarra è un antico sarto che cuce lo strumento addosso al musicista. A ognuno il proprio accessorio. «La sua arte e la sua disponbilità – spiega Alessio Vicario, primo clarinetto del Teatro Massimo di Palermo – permettono accostamenti ed esperimenti che mirano ad accorciare sempre di più la distanza tra le aspettative di chi suona e le caratteristiche dei barilotti, tentando costruzioni ad hoc».
La filosofia e la ricetta di Musarra le definisce lui stesso: «Ho sempre seguito la cultura del dettaglio, alla ricerca del particolare che fa la differenza». Criteri che ispirano ancor più la sua nuova innovazione: il risuonatore. E stavolta la parte del clarinetto interessata è l’ultima, quella terminale: la campana. «Questo risuonatore è invisibile, fissato al suo interno. È il tocco finale. Ma non per me». La barriera del suono è ancora lì da esplorare.