È stato il caso televisivo dell’estate americana, un successo imprevisto e clamoroso, tanto che dopo i primi dieci episodi è stata messa subito in cantiere una seconda stagione, con l’intenzione di arrivare fino alla quinta. Eppure non c’è da stupirsi che
Mr. Robot, serie ideata da Sam Esmail e prodotta Universal Cable Productions e Anonymous Content, presentata ieri al Roma Fiction Fest e in arrivo in Italia il 17 dicembre sul canale Premium Stories, abbia infiammato gli spettatori, diventando un vero e proprio programma di culto. Non c’è da sorprendersi di tanto entusiasmo perché il tema affrontato da questo psicothriller cyberpunk è quello degli attacchi informatici, della paura di essere spiati e manipolati attraverso la rete (basti pensare ai recenti film su Julian Assange e Edward Snowden), ma paradossalmente anche del timore che qualcuno fermi gli hacker, capaci di svelare al mondo segreti altrimenti destinati a rimanere nascosti nelle stanze del potere. Una questione complessa, contraddittoria e di grande attualità, che scatena dibattiti e polemiche, plausi e condanne. Protagonista della storia è Elliot Alderson, giovane e prodigioso ingegnere informatico al servizio della Allsafe Security, società che si occupa della sicurezza delle multinazionali di Wall Street. Sociopatico, paranoico, morfinomane, incapace di condurre una vita normale, Elliot è convinto che l’unico modo per conoscere e comprendere anche le persone che ama e rispetta sia violarle, informaticamente parlando, scansionandole. Un giorno viene contattato dal leader della Fsociety, gruppo clandestino anarco-insurrezionalista di hacker, e arruolato per minare dall’interno proprio per l’azienda che è pagato per proteggere. Per il ragazzo sarebbe l’occa-È sione di distruggere una di quelle compagnie che lui crede stiano controllando e minacciando il mondo e per smascherare quella gente che gioca una partita truccata, specula sulle catastrofi e «gioca a fare Dio senza permesso». Non è difficile allora immaginare quanto questo personaggio, che ora figura su molti portoni di New York grazie ai graffitari Logan Hicks e Joe Iurato e che un tanto assomiglia alla Lisbeth Salander della trilogia
Millennium (il regista del pilot è proprio Niels Arden Oplev, regista di
Uomini che odiano le donne), sia diventato tra i più giovani una sorta di supereroe capace di far saltare in aria i potenti del mondo con un semplice click. Tra i bersagli contro i quali si scaglia, anche se solo verbalmente, Elliot ci sono anche i social network, la saga di
Hunger Games come simbolo di una cultura pop commercialmente omologata e persino la Apple. «Prima di scrivere quelle parole – ci ha raccontato Sam Esmail, americano di origine egiziana che abbiamo incontrato al Festival di Zurigo – ci siamo assicurati che tutto fosse assolutamente legale. Apple non aveva nulla da obiettare su quello che abbiamo detto a proposito di Steve Jobs: loro hanno davvero impiegato bambini nelle fabbriche in Cina». E sui temi messi in campo nella serie commenta: «Il cinismo delle corporation è sotto gli occhi di tutti, così come è evidente che attraverso i social network consegniamo proprio a loro le nostre informazioni più private. Ma sono anche consapevole del ruolo rivoluzionario che i social network hanno avuto a piazza Tahir. La tecnologia è un’arma a doppio taglio, può essere sinonimo di controllo, ma anche di libertà». È necessaria una grande attenzione da parte del pubblico per decifrare il linguaggio tecnico usato dai protagonisti della serie. Ma questo non deve spaventare chi non mastica la materia, non bisogna certo essere degli hacker e neppure degli esperti informatici per seguire la vicenda umana del giovane protagonista, che non si limita a scavare nel privato delle persone e delle aziende con grande perizia tecnologica, ma condivide con lo spettatore sentimenti ed emozioni universali. Diventando l’ennesimo testimonial di una
golden age della serialità televisiva capace di offrire in questi ultimi anni opportunità creative e produttive che prima erano appannaggio del cinema indipendente e di ricerca. «Neanche io capisco tutti i dialoghi dello show – ammette sorridendo il giovane protagonista, Rami Malek, anche lui di origine egiziana – ma cerco di arrivare sul set sempre più preparato sulla terminologia che usiamo. La forza della storia però va ben oltre il potere della tecnologia, si parla di una rivoluzione personale, della voglia di infrangere le regole, di esseri umani con il loro bagaglio di sentimenti, emozioni, contraddizioni. Seppure da lontano ho seguito con interesse e apprensione la primavera araba e per alcuni aspetti si tratta della stessa rivoluzione di cui il mio personaggio si fa interprete». Nei panni del leader degli hacker pronti alla rivolta informatica c’è Christian Slater, ex ragazzino prodigio di Hollywood che a diciassette anni si era fatto conoscere grazie a
Il nome della rosa. «Sono moderatamente social, ho un account Twitter e Facebook, ma sto molto attento, e soprattutto vigilo su come si muovono in rete i miei figli che hanno 14 e 16 anni. Internet è eccitante e spaventosa al tempo stesso, puoi decidere di ignorarla, oppure prenderla in considerazione e trarne qualche beneficio. Ma bisogna capire bene cosa si ha di fronte».