La notizia, in sé e per sé, potrebbe anche passare inosservata, perché una promozione in Bundesliga, per quanto si tratti per il club in questione della prima volta, non rappresenta nulla di eccezionale. Eppure, nel caso del RasenBallsport Leipzig che ha appena conquistato la massima divisione tedesca, il risultato ottenuto non è banale, né senza conseguenze: la squadra di Lipsia, infatti, porterà dal prossimo agosto un franchising a competere in uno dei maggiori tornei calcistici del mondo. Perché la denominazione ufficiale registrata all’anagrafe della federazione, e abbreviata in RB Leipzig, nasconde la vera natura del club: RasenBallsport è un sotterfugio dettato dalle regole - che vietano ai club tedeschi di portare il nome di un’azienda straniera - ma l’acronimo cela un brand. RB, ovvero Red Bull.
È il calcio in vitro, un ogm che neutralizza tradizioni e differenziazioni in una omologazione governata da due soli, ma solidi, principi: riconoscibilità e marketing, dove lo sport è il pretesto per veicolare un’immagine vincente da spendere a livello commerciale. Red Bull GmbH, colosso austriaco delle bevande energetiche, ha puntato fortemente su questa politica. La multinazionale di Dietrich Mateschitz sponsorizza una pletora di atleti - paradigmatico il caso di Felix Baumgartner, jumper che nel 2012 si lanciò da 39 mila metri raggiungendo i 1357,64 km/h in caduta libera - e manifestazioni, ma soprattutto ha scelto l’intervento diretto in alcuni sport: dalla Formula 1, con la proprietà delle scuderie Red Bull Racing e Toro Rosso, all’hockey su ghiaccio, dove possiede i club di Salisburgo e Monaco di Baviera.
Ma è nel calcio, per popolarità e trasversalità, che il progetto globale ha sublimato il concetto della reductio ad unum, la moltiplicazione di club uniformi che, in nazioni e continenti diversi, portano sui campi lo stesso franchising. Lipsia come New York, Salisburgo come Campinas, le città in cui il pallone è stato colonizzato da Red Bull. Tutto uguale, dappertutto: stesso nome e stessi colori sociali, identiche maglie fornite dallo stesso sponsor tecnico (unica eccezione nella Mls statunitense, dove lo sponsor tecnico è unico per tutta la lega e dal 2016 non è più lo stesso di Red Bull), loghi in cui cambia solamente l’indicazione geografica, stadi tutti ribattezzati Red Bull Arena. Schema e stilemi non cambiano, si adattano al contesto e lo modificano.
Tutto iniziò a Salisburgo, città natale di Mateschitz, dove nel 2005 Red Bull rilevò lo storico Austria Salzburg rendendolo egemone: sette scudetti nelle ultime dieci stagioni, tre coppe d’Austria nelle ultime quattro con la possibilità di fare poker nella finale del prossimo 19 maggio. Il prezzo? La cancellazione della storia dei Violett. Poi vennero gli States, stessa modalità ma in maniera meno drastica, considerando il sistema Usa delle franchigie: la multinazionale acquistò i MetroStars di New York, li vestì con la solita divisa bianca e rossa con i due tori in bella vista e li piazzò in Major League. Non vince granché, ma non importa: negli Stati Uniti basta mettere la bandierina e mettere sotto contratto alcuni grandi nomi, come accadde con Thierry Henry, Juan Pablo Angel e Bradley Wright-Phillips. Poi, unico club nato da zero, il Red Bull Brasil di Campinas, che gioca il campionato Paulista e punta ad un futuro nel Brasileirão, quindi nel 2009 l’approdo in Germania con l’acquisizione del titolo sportivo del periferico Markranstädt, divenuto appunto RB Leipzig e capace in pochi anni di passare dal dilettantismo alla Bundesliga. Gli obiettivi entro il 2020 sono la qualificazione in Champions e il titolo. Riuscì nel 2009 al Wolfsburg, portato al trionfo dal turbo finanziario della Volkswagen, e per questo Red Bull sa che non si tratta di una missione impossibile, considerando budget in certi casi fuori scala per la categoria - per il Rasen-Ballsport 100 milioni di euro per la scalata appena completata, e altrettanti in previsione del primo anno in Bundesliga - e investimenti strategici nei settori giovanili o in società satellite, come accade in Austria con il Pasching (club di terza divisione che vinse la coppa nazionale nel 2013) e il Liefering, in tutto e per tutto made in Red Bull. Nel curriculum, un solo passo falso: in Africa, a Sogakope, dove Red Bull Ghana, creata nel 2008, nel 2014 ha passato la mano, ha cambiato nome ed è oggi inserita nella rete giovanile degli olandesi del Feyenoord. Perché a volte le logiche del calcio riescono ancora a vincere.