«Senza controlli la scienza ci porterà alla disumanità». Così il regista Manoel de Oliveira, maestro del cinema scomparso a 106 anni, ci ammoniva qualche anno fa sui pericoli della scienza.
«
Non sappiamo cosa succederà se saremo clonati, tramite la scienza siamo capaci di fare molte cose pericolose. Basti pensare all'atomo che ha provocato la bomba atomica. O ai cellulari con cui ormai si può girare un film.
Le persone si disumanizzano sempre più. Si va verso una vita artificiale».Manoel de Oliveira era un giovanotto ultracentenario. Uno che usava il cinema per osare, per spingersi oltre. A lui interessava l’uomo. Coi suoi tortuosi percorsi. Anche spirituali.
«Sono figlio di cattolici, sono stato educato alla religione cattolica. Credo in Dio ma non ho la certezza» spiegava a proposito del suo rapporto con la fede.
Parafrasando il titolo di un suo celebre film, la sua vita era un viaggio all'inizio del cinema.
Terzo figlio di un agiato industriale di
Oporto, forte di un'educazione dai gesuiti, prima eredita con i fratelli le fabbriche tessili del padre. Poi, il richiamo dello sport e dello spettacolo.
Recita nel primo lungo sonoro portoghese A cançao de Lisboa e si dedica
all'atletica e all'automobilismo. Nel 1931 gira Douro, lavoro fluviale,
un documentario applaudito dalla critica francese e, sembra, da Luigi Pirandello.
In patria però c'è la dittatura di Salazar e non è facile, per chi è critico
con il regime, ottenere finanziamenti. Così durante gli anni Trenta De
Oliveira gira qualche documentario, scrive sceneggiature come passatempo,
ma per lo più si occupa di viticoltura. Nel 1941 la prima svolta con Anikì-Bobo,
capolavoro del realismo lusitano. Si convince che il suo destino è il cinema.
Ha trentatrè anni. Va in Germania a studiare fotografia e sperimenta altri
film, tra diffidenza e censura. Qui finisce il primo tempo della sua vita.
Bisogna aspettare la morte di Salazar e gli anni Settanta per vedere esplodere
il "caso" De Oliveira. Ha più di 65 anni: pochi si possono permettere il
lusso di iniziare la carriera a questa età. Un film e oltre l'anno, quasi
a voler recuperare il tempo perduto. Negli anni Novanta la consacrazione.
Instancabile girovago, presenzia alle prime dei suoi film, sostiene dibattiti
dovunque. Due Leoni d'oro alla carriera e una Palma a Cannes.
Tra i tanti riconoscimenti, anche il Premio cattolico Bresson nel 2001
per «l'impegno morale del suo cinema». Definì un onore riceverlo «perché
concesso da Papa Giovanni Paolo II, che più di ogni altro si è impegnato
per raggiungere la pace tra i popoli». Raffinato cosmopolita di grande
erudizione come il conterraneo Fernando Pessoa, i suoi film rivelano ascendenze
letterarie e filosofiche. Senza snobbare star europee del calibro di Marcello
Mastroianni che con lui girò il suo ultimo Viaggio all'inizio del mondo,
road movie sulla vecchiaia e la morte. Fu proprio De Oliveira poi a scoprire
la figlia di Mastroianni, Chiara, ne La Lettera. Anche i grandi attori
francesi gli fanno la corte: Michel Piccoli, nel tenero e profondo Ritorno
a casa, o Catherine Deneuve, che ha però declinato l'invito a recitare
in Bella sempre, seguito ideale di Bella di giorno di Luis Buñuel.
La pittura,
la letteratura, l'importanza della parola, la religione, le nevrosi della
società borghese: ogni film è un confronto con la cultura dell'Occidente
fino all'emblematico Un film parlato, girato dopo l'11 settembre, racconto
di una crociera per il Mediterraneo in cui personaggi diversi si incontrano
e comunicano ognuno nella propria lingua. Critico nei confronti del «cinema
sempre più turpe» e «delle orrende cose che passano in televisione», ha
sempre amato citare il paradosso per cui «finché c'è vita c'è arte. E della
vita resta solo l'arte».
A tutti i suoi estimatori e al mondo del cinema resta ora Memorie e confessioni, film-testamento che il maestro lusitano ha lasciato da scoprire solo dopo la sua morte.