Lo scrittore francese Jean D'Ormesson (1925-2017)
La Francia è rimasta orfana del romanziere e saggista Jean d’Ormesson, alias “Jean d’O, scrittore della felicità”, come non
disdegnava d’essere chiamato. A 92 anni, è scomparso un gigante che era capace di trasmettere a tutti sulle onde radiofoniche mattutine il senso recondito di una favola di La Fontaine, prima di ritrovarsi a capitanare la sera i cenacoli letterari e filosofici più raffinati.
La sua vita è stata un lungo fiume di parole scritte in punta di penna, con eleganza d’altri tempi. O sapientemente pronunciate con un consumato dono d’affabulatore che catturava subito intere platee d’ammiratori d’ogni età, compresi i più giovani. Era di gran lunga il più noto e amato fra i membri dell’Académie Française, dove aveva conquistato il suo scranno a vita nel lontanissimo 1973, divenendo il più giovane “immortale” di sempre. Dal 2009 era decano dell’istituzione plurisecolare, in cui si era pure battuto per favorire l’elezione nel 1980 della prima donna in assoluto, Marguerite Yourcenar.
Con l’altro accademico Marc Fumaroli, amico fraterno, impersonava l’arbiter elegantiarum delle lettere transalpine, iscrivendosi in termini d’eloquenza nella lontana scia dell’impareggiabile Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704), vescovo di Meaux e coltissimo predicatore. Proprio sotto la celebre cupola dell’Académie Française, troneggia il busto marmoreo del presule seicentesco, che certamente i due accademici amici si erano fermati a commentare assieme un numero incalcolabile di volte.
Ma a differenza di Fumaroli, più riservato e meno vicino al grande pubblico, Jean d’Ormesson è rimasto fino all’ultimo l’idolo letterario indiscusso soprattutto delle signore francesi di una certa età, non insensibili in gioventù all’appeal anche fisico di Jean d’O, i cui occhi azzurri sono stati spesso paragonati a quelli di Paul Newman. Questa profusione di successo sociale e di multiforme charme personale ha finito per condizionare la carriera letteraria di Jean d’Ormesson? Con meno mondanità, avrebbe potuto scalare vette ancora più alte? Tanti critici lo pensano, biasimando soprattutto certe concessioni giudicate leziose in alcuni bestseller dell’accademico, autore di una quarantina di volumi. Ma è pure possibile sostenere il contrario. Ovvero, che la vita acrobatica del personaggio, onnivoro d’alte cariche culturali al punto d’essere stato pure direttore di “Le Figaro” e presidente del Consiglio internazionale della filosofia e delle scienze umane presso l’Unesco, servisse in fondo da ossigeno sociale all’accademico.
D’Ormesson, cresciuto in un castello come erede di una famiglia blasonata di ambasciatori, si sarebbe forse ritirato per scrivere meno facilmente e volentieri senza il dolce retrogusto dei tanti successi pubblici. Di certo, fra la dimensione pubblica e quella letteraria si era instaurata una fluida dinamica di vasi comunicanti. Con l’accademico, fra l’altro grande innamorato dell’Italia, scompare pure un autore capace di elevare la riflessione dei propri lettori verso quelle zone celesti così spesso invise negli ambienti letterari transalpini. Ciò è divenuto evidente soprattutto negli ultimi anni, quando saggi e meditazioni con colorazioni talora trascendenti e “cosmiche” hanno preso il posto dei romanzi dei decenni precedenti, spesso basati su saghe familiari fra cui si possono ricordare A Dio piacendo (Beat), così come La gloria dell’Impero e Il romanzo dell’ebreo errante entrambi per Rizzoli. Per molti aspetti, verrebbe quasi da dire dulcis in fundo, pensando all’intensità di certe pagine recenti sul senso della vita, in scritti come Malgrado tutto, direi che questa vita è stata bella, o anche Che cosa strana è il mondo, accanto a Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto, o ancora Il mio canto di speranza, in Italia nel catalogo delle edizioni Clichy, dopo essere divenuti oltralpe autentici casi letterari. L’anno scorso, Guida degli smarriti è invece uscito per Neri Pozza.
In queste ultime opere, la consueta rotondità ed eleganza della scrittura dell’accademico, mai prive di un pizzico d’autoderisione, sposano una vena molto intima, rivelatrice anche di una ricerca di Dio sincera e irrequieta. Al settimanale cattolico “Pèlerin”, aveva confessato di recente: «Sono nato in una famiglia molto cattolica, morirò cattolico. Ma devo ammettere che non so. Spero che Dio esista. Da una parte, frequento tutti i giorni persone persuase che è così: Chateaubriand, Claudel, Péguy… Dall’altra, persone convinte del contrario: Marx, Sartre… Nei due casi, è impossibile la minima prova. Mi piacerebbe crederci. Spesso dubito. Dubito di Dio perché ci credo. Credo in Dio perché dubito. Diciamo che… dubito in Dio. Mi rassegno dunque a non scegliere e mi schiero con gli agnostici».
Il gusto per il dialogo con i credenti emergeva spesso nei suoi interventi pubblici. Nel 2008, in occasione del viaggio apostolico francese di Benedetto XVI, aveva confessato ad “Avvenire” di essere rimasto «particolarmente colpito» dall’entusiasmo giovanile di quelle ore: «Il rigore intellettuale del Papa si è diffuso ben al di là di gruppi delimitati, fino a raggiungere in modo indistinto anche i giovani. Questo successo ha fatto ricordare quelli di Giovanni Paolo II nel corso dei suoi diversi viaggi in Francia». Nel 2013, si era mostrato critico verso il «matrimonio per tutti» introdotto dall’allora governo socialista.
Negli stessi anni, sul fronte non letterario, lo scrittore di convinzioni politiche conservatrici aveva debuttato al cinema interpretando con humour il ruolo del presidente socialista François Mitterrand, nella commedia La cuoca del presidente (2012) di Christian Vincent, tratto dalle memorie dell’ex cuoca presidenziale Danièle Mazet-Delpeuch.
Nel 2015, Gallimard aveva eccezionalmente inserito l’accademico nella collana della Pléiade, che in genere onora i grandi autori a titolo postumo. Sono tante le raffinate frasi ad effetto coniate dallo scrittore tornate ieri sulla ribalta dopo l’annuncio della morte, in mezzo a un diluvio ininterrotto di reazioni, a cominciare da quella del presidente Emmanuel Macron: «Era quanto c’è di meglio dello spirito francese, un miscuglio unico d’intelligenza, d’eleganza e di malizia, un principe delle lettere che sapeva non prendersi mai sul serio».