Bastano pochi numeri per capire in che mondo viviamo. Solo negli Stati Uniti ogni due minuti vengono scattate più fotografie di quante se ne siano realizzate nell’intero XIX secolo, e ogni mese vengono caricati sul web 93 milioni di selfie, per non parlare dei milioni di nuovi video postati quotidianamente sui social. Sembra di vivere tutti in una realtà virtuale, non più legata a un unico luogo e tempo. Qual è la forza e la potenza di queste immagini? Solo gioco, o qualcosa di più? Interrogativi che Nicholas Mirzoeff affronta in Come vedere il mondo. Un’introduzione alle immagini: dall’autoritratto al selfie dalle mappe ai film (e altro ancora) edito da Johan&Levi (pagine 220, euro 23,00) che pubblica in italiano un testo che in America ha fatto molto discutere, avviando una riflessione su immagine e immaginazione. Mirzoeff insegna Media culture and communication alla New York University, ed è considerato uno degli esperti di cultura visuale più inventivi e poliedrici.
Professore, c’era una volta il villaggio globale di tv, giornali e radio. Come definisce questo nuovo mondo, dominato dalla rete e dal “culto” dell’immagine?
«È un mondo di immagini, da Thinder a Throwback Thursdays (“I giovedì del ritorno al passato”, un gioco di post e hashtag di immagini della memoria) e Trump. Dal lavoro al tempo libero e alle uscite romantiche c’è un sempre uno schermo con noi, ovunque, tutti i giorni. L’americano medio trascorre 9,9 ore al giorno guardando un display, che sia di un telefono, di un computer o di una tv. Le persone stanno guardando media visuali come mai prima. Alla fine della Guerra Fredda artisti e accademici, immaginarono un nuovo modo di vedere il mondo: ci si interrogava come le persone vedevano se stesse e come venivano viste dagli altri; un modo basato sulla cultura popolare, immagini media e la loro influenza sull’arte. La chiamarono cultura visiva. Nella città di New York un giovane gruppo di fotografi post moderni – come Nan Goldin, Sherrie Levine e Cindy Sherman – incarnò questo cambiamento. Il loro lavoro era centrato sulle proprie vite. Questi fotografi ci chiesero di riflettere sul mondo in cui viviamo centrato sull’immagine attraverso altre immagini. Erano quelli della cosiddetta Picture Generation».
E oggi?
«Oggi c’è una nuova cultura visiva che io chiamo Snapchat Generation. Si focalizza sulla condivisione online senza un vero riconoscimento nel mondo dell’arte. Comprende Instagram, Facebook, Imgur, Tumblr, Netflix, Hulu, Twitpic,YouTube e un’ampia gamma di altre app. Molte persone sono diventate famose in America e non solo attraverso questo processo, come le star di YouTube PewDiePie, Michelle Phan o Rhett & Link. Milioni di utenti generano milioni di profitti in pubblicità. Snapchat incarna questa nuova circolazione di immagini: è una app di conversazione che permette agli utenti di condividere immagini, sapendo che saranno cancellate 10 secondi dopo essere state viste. All’inizio era usata per conversazioni potenzialmente controverse e a sfondo sessuale, adesso è diventata una conversazione visuale per l’era degli smartphone. Tre miliardi di snap vengono scambiati incredibilmente tutti i giorni su una app lanciata nel 2001 e che ancora non è autorizzata in Cina, il più grande mercato di internet».
È proprio una questione generazionale? È così netta la differenza?
«Snapchat rappresenta la separazione generazionale che viviamo. Mentre i “baby boomers” e la Gen X (i nati fra il 1960 e il 1980) vedono questa conversazione visuale come una promozione narcisistica, i Millennials la considerano parte della vita di tutti i giorni come una volta era considerata una telefonata. Il 44% dei Millennial usa la macchina fotografica degli smartphone tutti i giorni, e il 76% degli scatti che fanno finiscono in un post sui social media».
Tantissime immagini... ma quale visione?
«Esiste un nuovo “noi” su Internet, che usiamo per condividere queste immagini, che è diverso da qualsiasi “noi” che stampava le immagini e da qualsiasi cultura media del passato. Circa l’85% di afroamericani fra i 18 e i 29 anni possiedono uno smartphone. Molti punti percentuali in più rispetto ai coetanei bianchi. Inizialmente i risultati di questa differenza erano considerati specifici, così come l’incremento di quello che è stato chiamato “Black Twitter”, uno stile di social media degli afroamericani. Poi dopo l’uccisione dei poliziotti Eric Garner e Michael Brown nel 2014, e altri eventi di violenza della polizia americana, sono stati documentati e discussi ampiamente online. Con il risultato che hanno determinato uno spostamento delle investigazioni pro forma che garantivano la fine senza neanche un processo, una imputazione d’accusa, come nel caso di Brown e Garner, a una rapida imputazione degli ufficiali dei casi di Freddie Gray e Walter Scott. Molto deve essere ancora fatto, ma la resistenza assoluta della “thin blue line” (la sottile linea blu) come i poliziotti amano definirla, è stata infranta. L’intervento dei giovani, la maggioranza di chi vive in città con i nuovi media globali ha creato lo spostamento dal documentare il cambiamento a determinare il cambiamento».
Vuol dire che un’immagine può cambiare il mondo?
«Diciamo che per determinare il cambiamento, la comunità visuale globale sta intervenendo nel mondo dell’immagine. L’immagine non fa parte della nostra vita, ma è ormai la nostra vita. L’attivismo visuale fa leva sull’energia e la passione che le persone hanno per i social media e le restituisce al mondo, contribuendo a creare nuove forme di cambiamento sociale. A partire dalla primavera araba i social media hanno cambiato anche la forma della politica».
Un altro esempio?
«In Sudafrica un movimento di studenti, nel 2015, ha avviato online una petizione per la rimozione della statua di Cecil Rhodes dal campus dell’Università di Cape Town. Rhodes, un imperialista duro a morire, non veniva visto come una immagine appropriata per una nazione post apartheid. La campagna online #RodhesMustFall ha originato un’onda di attivismo e la statua è stata rimossa. Ma gli studenti non si sono fermati. Successivamente, lo stesso anno, hanno chiesto la cancellazione dell’aumento pianificato della retta, utilizzando l’hashtag #FeesMustFall. Ciò che era iniziato come un dibattito estetico ha portato al cambiamento della policy governativa. Hanno cominciato a dibattere, per esempio, su come avrebbe dovuto essere organizzata l’università in una campagna chiamata “Decolonizza il curriculum”. L’attivismo visuale dà forma insomma a come i giovani vogliono essere visti da se stessi e dagli altri quando lo Stato non può o non vuole rappresentarli».
Un fenomeno o una degenerazione del mondo dell’immagine è il selfie...
«La prima “firma”, il simbolo di questa narrazione visiva contemporanea è il famigerato selfie, sì. Il selfie è il culmine della lunga democratizzazione dell’autoritratto. Una volta i ritratti e gli autoritratti erano riservati agli artisti e ai loro ricchi padroni. La fotografia ha esteso il campo, sin dalla sua nascita. Nel 1839, il fotografo francese Hypployte Bayard realizzò per esempio l’ Autoritratto di un uomo annegato , il primo vero e ironico selfie. La combinazione di smartphone con la fotocamera frontale e social media ha reso, dal 2010, i selfie ubiqui. “Selfie” è la parola dell’anno del 2013, utilizzata il 17.000% in più dell’anno precedente. In termini assoluti Google ha stimato che nel 2014 sono stati scattati qualcosa come 30 miliardi di selfie, per la maggior parte dalle donne, come rivela il sito SelfieCity. Nel fare i selfie si cerca di rappresentare se stessi come persone che stanno avendo una vita che conta e merita di essere vissuta e mostrata agli altri».
Narcisismo, io imperante o cosa?
«Non sono un prodotto del narcisismo, come tante persone più grandi e mature evidenziano, ma piuttosto di ansia. Dopotutto Narciso non si è mai fotografato, non ha mai condiviso una foto, e non avrebbe mai capito “l’orrore di un selfie”: semplicemente fissava la sua immagine riflessa. Ormai è un cliché, il selfie in sé non è importante. Ci dimostra solo che la nuova generazione sta inventando nuovi modi di vedere se stessa».