Il giornalista Alessandro Milan
“Milano a teatro, e un olé da torero”, cantava Lucio Dalla nell’inno più grande dedicato alla metropoli da uno nato fuori dalle sue circonvallazioni, l’olé sciolto nell’applauso, nel “bravo” partito dalle gallerie e lanciato verso il Bramieri che ti ha fatto ridere, l’Albertazzi che ti ha stregato, Dario Fo. Il teatro dei manifesti affissi in strada, e che oggi ti rubano lo sguardo perché spuntano nomi e volti conosciuti, e che però lì sopra suonano strani. Teatro Nuovo, e poi sotto c’è Gianluigi Paragone, il “domatore” nella Gabbia televisiva di La7, e poco dopo il direttore del "Fatto Quotidiano", Marco Travaglio, che ritroviamo anche al Leonardo. Al Carcano, Andrea Scanzi. E ancora, in un passato ancora freschissimo, Beppe Severgnini, Antonello Piroso. Giornalisti sulle assi di palcoscenici abituati ai lustrini, a storie create ad hoc, firme che si riscrivono e reinterpretano anche su una scena che non accetta bluff, impreparazione, la regola e il fascino del teatro che annulla le distanze con coloro che nella normalità sono lettori o telespettatori.
Una contaminazione variegata, portata da ognuno secondo la propria specificità, quasi sempre imperniata comunque su monologhi iniettati di un minimo sindacale di tecnica teatrale e soprattutto su una propria verità, con un nome e un cognome, un volto, una sorta di trademark. “Cosa vedo in tutto questo? Positivo e negativo, è bella la voglia di un contatto diretto col pubblico, in una redazione o in uno studio puoi avere un distacco dal paese reale. Mi inquieta invece che il giornalista venga prima del contenuto, la tendenza alla personalizzazione che questa formula può acuire. Conta chi sono e cosa ti dico io, non cosa ti dico”. Chi commenta è Alessandro Milan, una delle voci più popolari di Radio 24, host della trasmissione del primissimo mattino in cui ha saputo e sa mixare l’informazione con quel po’ di leggerezza, di ironia mica così scontata di questi tempi, e a quelle ore, poi. Un melting pot che lo ha portato, preso per il braccio dal comico Leonardo Manera, ad approdare anch’egli sulle assi, domani sarà al Manzoni per la terza di quattro date previste per Platone – La caverna dell’informazione. “Dove gli uomini vedevano delle ombre, e pensavano fossero reali, invece erano proiezioni della realtà – spiega Milan – giochiamo su un’informazione che sembra vera e non lo è, e al contrario su notizie inverosimili che al contrario sono davvero state pubblicate. Con me e Manera sono coinvolti comici dello Zelig, che si presentano come veri protagonisti di storie la cui costruzione poi cade fatalmente nella satira. E’ contaminazione nata dal teatro, proprio allo Zelig, e poi passata anche in radio, non è dunque un adattamento di qualcosa creato per un media. E’ ironia sul cliché dei talk show”.
Una formula di teatro più aderente ai canoni, insomma: eppure può colpire, anche da parte dei cosiddetti televisivi – o radiofonici, nel caso di Milan -, la capacità di adattamento e di eguale efficacia comunicativa da un palco: “Personalmente mi sono molto emozionato, anche allo Zelig, dove abbiamo cominciato – è la risposta – , quando abbiamo debuttato al Manzoni sono stato scambiato dal personale per uno dei comici, indirettamente un complimento. Confrontarsi direttamente con la gente non è certo una esperienza negativa, il tipo di radio che faccio io crea un rapporto molto diretto e anche questo è un modo per incontrare veramente chi ti segue. Credo che il giornalista a teatro faccia parte del panorama dell’informazione, che è molto cambiata, e che continuerà a cambiare. Il punto è che possa coinvolgere, e per quanto mi riguarda al nostro esordio al Manzoni abbiamo avuto 700 persone, quasi il tutto esaurito. E’ piaciuta la logica della realtà vera e presunta che si può sciogliere in uno spettacolo divertente, ma se ci pensate il percorso inverso esiste in maniera ancora più evidente: ci sarà un motivo se il principale comico su piazza è Crozza, che costruisce tutto sull’attualità. E per quanto riguarda gli altri, si dice da tempo che lo storytelling paghi, paga il modo di raccontare le cose, nell’era dell’ipercomunicazione. E a questo proposito, occhio solo a non cadere nella post-verità”.