Il calcio è tutto un paradosso, e dunque non dovrebbe sorprendere più di tanto che due marchi di fabbrica del successo siano diventati sinonimi, simboli della metropoli del “pallone scoppiato”. Filippo Inzaghi, Roberto Mancini: due addendi la cui somma produce un palmarès da Guinness, migliaia tra gol e assist, idoli dei tifosi, delle tifose - anche - delle loro squadre, Milan e Inter. Due sovrani del campo con il secondo che è poi riuscito, almeno fino a un paio di calendari fa, a dare un seguito alla storia anche dalla panchina. L’ex spietato giustiziere delle aree di rigore ha provato a fare lo stesso, partendo da predestinato, diciamo pure da privilegiato rispetto a cento e cento colleghi: a tenerlo a battesimo e a lanciarlo nel nuovo e sperato Olimpo il suo Milan, la società che oggi, carezzandogli gli ancor lunghi capelli spruzzatisi d’argento in pochi mesi, lo sta già mettendo da parte. L’ultima grande rivoluzione berlusconiana idealmente chiamata «crea in casa il tuo mister-uomo azienda e risparmia», è definitivamente fallita dopo il primo parziale flop al tempo di Leonardo e lo schianto totale con Seedorf, passato in sei mesi dallo status di “antivirus” dei mali milanisti a quello di contendente nelle aule di Tribunale. L’inesperienza, l’eccessiva autostima, la brama di primeggiare - la stessa che lo animava nelle più calde aree di rigore - hanno seppellito il popolare Superpippo. I titoli di coda stanno scorrendo, c’è il match di questa sera (quarti di Coppa Italia) con la Lazio che può rappresentare l’estrema possibilità di risalire la corrente, di evitare il risucchio della cascata. Ma è dura nei 90 minuti più eventuali code e pare pressoché impossibile guardando la realtà, gli oggettivi fatti delle ultime ore, che sono quelli di una società che ha preferito evitargli i consueti microfoni della vigilia, che ha imposto - contro il parere dello stesso Inzaghi - di non convocare Philippe Méxes, protagonista sabato sera contro gli stessi avversari di una imbarazzante sceneggiata. Poi non ci sono ancora i fatti, ma si le parole scambiate da Silvio Berlusconi e Adriano Galliani, costretti ad agire, a decidere che diavolo fare del “Diavolo”, a scegliere la nuova linea tecnica, possibilmente anche a medio-lungo termine. Il popolo, ma soprattutto la logica, chiedono un allenatore vero, con tante ore di volo, cicatrici sulla pellaccia, esperto, autorevole nella gestione del gruppo, capace di dare un’anima a una squadra in cui la mancanza di carattere, di collante è riuscita persino a oscurare l’inesistente gioco, i limiti tecnici, che sono notevolissimi. È una questione di danari, come sempre. Luciano Spalletti, tra i tecnici più apprezzati da Galliani anche in tempi ormai lontani e non sospetti, è a disposizione: ma servono molti zeri, sia nei bonifici a lui destinati, sia in quelli che dovrebbero essere compilati per calciatori ritenuti capaci, abili e arruolabili nel nuovo progetto. Ecco, progetto. La parola mancante di un Milan che nei prossimi mesi, ancora, andrà avanti col piccolo cabotaggio. Arrivederci e grazie di tutto, allora, all’aziendalista Inzaghi, faccia diventata improvvisamente tirata e scura della stessa medaglia in cui campeggia anche Roberto Mancini, seduto sullo stesso gradino - basso - di una classifica tutto meno che impervia, perlomeno fino al rifugio del terzo posto. Mister Mancio da Jesi era stato invocato dalla plebe nerazzurra e conseguentemente caldeggiato dal suo massimo rappresentante di sempre - Massimo Moratti - per vedere finalmente a San Siro tracce di un calcio degno di questo nome, a loro dire cancellate come un esperto killer da Walter Mazzarri. Bene, i numeri recitano di 10 punti in 9 partite di campionato, illuminate da sole due vittorie (su Chievo e Genoa): e soprattutto di zero gol realizzati, e una preoccupante involuzione nel gioco offensivo negli ultimi 180 minuti di Empoli e con il Torino domenica scorsa. Il credito - e ci mancherebbe altro - è ancora ampio: lo stesso Moratti, ora e sempre bocca della verità Bauscia, ha tenuto a sottolineare la fiducia incondizionata verso il figliol prodigo riservando piuttosto qualche messaggino a certi giocatori «che dovrebbero dare di più». Thohir, presente al Meazza per la doccia gelata e granata, tace, lascia volentieri le esternazioni al predecessore-consigliere, ma punta la sveglia. Lui, il suo, l’ha fatto, lo sta facendo: con un mercato sorprendente, con il primo grande investimento effettuato proprio nel cambio tecnico e nell’ingaggio di Mancini e del suo staff, con la disponibilità nel firmare dei “pagherò” la cui onorabilità dipende in gran parte dal conseguimento della Champions League, a oggi “mission impossible”. Serve, subito, un’inversione di tendenza. Perché se il tempo di Superpippo è scaduto, il countdown di
Bobby Goal potrebbe lentamente cominciare. Che bei tempi, quando si usavano questi nomignoli.