mercoledì 16 ottobre 2024
Un convegno alla Gregoriana indaga l’immaginario che nei decenni si è costruito attorno alla figura, a prima vista eterodossa, del gesuita francese, ai suoi tempi considerato “dinamitardo”
Michel de Certeau

Michel de Certeau - Archivio Avvenire

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Oggi presso l'Università Gregoriana ha luogo il convegno “Michel de Certeau. Pensare la modernità”. Diana Napoli spiega il senso dell’appuntamento e la eredità che il gesuita francese lascia a 100 anni dalla sua nascita e a quasi 40 dalla morte.

Ci sono due testi di finzione in cui compare Michel de Certeau (1925-1986). Il primo, Il santuario era vuoto, scritto da padre Virgilio Fantuzzi (1937-2019), membro del Collegio degli scrittori de La Civiltà Cattolica, è un breve racconto teologico, pubblicato nel 1975 sulla rivista Carte segrete, che ha come protagonista lo storico Henri Brémond (1865-1933). Vi troviamo Certeau sotto le spoglie di «Michel, un giovane discepolo dal cuore sincero, lo sguardo penetrante, il futuro amico di Foucault e Lacan, di Barthes e della Kristeva, l’indagatore di miti, il distruttore di riti e di cattedrali, colui che avrebbe pubblicato, tanti anni più tardi, un opuscolo dal titolo Il grado zero del sentimento religioso in Francia» (titolo sotto cui si nasconde il noto Il cristianesimo in frantumi). Il secondo assomiglia a una “intervista impossibile”, per riprendere il titolo della celebre emissione radiofonica della Rai andata in onda tra il 1974 e il 1975, che possiamo leggere sul mensile Jesus di giugno, in cui il giornalista e sociologo Piero Pisarra intervista Certeau. Il quale racconta di come, ai suoi tempi, fosse considerato “dinamitardo”dalle istituzioni del sapere, si lascia andare a qualche considerazione sul presente, parla di Tik Tok e di quanto la Compagnia di Gesù sia “polivalente”, proprio come il Beaubourg, osservato da un caffè nelle vicinanze mentre è in corso di ristrutturazione.

Queste due apparizioni del “personaggio” Certeau sono estremamente fedeli all’immaginario che nei decenni si è costruito attorno alla figura, a prima vista eterodossa, del gesuita francese autore di un’opera, come ha fatto notare il sociologo Éric Maigret, interessata allo stesso tempo a Ignazio di Loyola, ai fondamenti teorici della storiografia e alle lettrici del settimanale Nous Deux. Per la tavola rotonda di oggi alla Pontificia Università Gregoriana, “Michel de Certeau: pensare la modernità”, insieme a Martin Morales, direttore dell’Archivio Storico dell’ateneo gesuita, e Davide Lampugnani, ricercatore dell’Università Cattolica, abbiamo scelto un tema che ci consente di attraversare l’opera certiana nella sua complessità. Certamente Certeau non ha elaborato una teoria della modernità; ma dai mistici del XVI secolo a Freud, da Amerigo Vespucci al maggio francese ce ne ha mostrato il “rovescio”, gli sconfitti, le contestazioni, e da ultimo, come si legge nell’Invenzione del quotidiano, la «fine necessaria affinché se ne potesse scrivere». Il suo percorso quindi, che ci fa indovinare una storia quando essa è ormai terminata, più che consegnarci una teoria ci invita a pensarla e a interrogarci, perché muovendoci tra i suoi scritti ci confrontiamo con la fine e le contraddizioni di un’esperienza del mondo, quella moderna, di cui, nell’Occidente che stiamo vivendo, siamo epigonali eredi, essendo che, fidandoci del nostro gesuita, «una lettura» non è che «mille modi di decifrare nei testi ciò che ci ha già scritto».

Se da un punto di vista strettamente storico la modernità coincide – seguendo Fabula mistica – con il silenzio della voce di Dio e la frammentazione dell’unità cristiana, per cui l’eretico diventa il ministro di un’altra Chiesa, da un punto di vista filosofico essa si mette in scena come lo spettacolo della rottura del rapporto tra le parole e le cose. È in questo «oceano della parola progressivamente disseminata, un universo senza confini e senza ancoraggio», come Certeau si esprime nell’Invenzione del quotidiano, che «l’individuo nasce come soggetto perché perde il suo luogo». Parallelamente alla riflessione su una soggettività «debole», da un lato abitata dalla mancanza e obbligata a negoziare con l’assenza, dall’altro desiderosa di ritrovare il «luogo» che ha perso, per nulla rassicurata dall’essere il cartesiano punto d’Archimede, Certeau si addentra in un’analisi teoretica sulla natura e il significato dell’istituzione. In dialogo con Michel Foucault e Pierre Bourdieu, sottolinea le sfaccettature più perverse del rapporto tra istituzione e soggetto nel quadro dell’«utopia fondamentale e generalizzata dell’occidente moderno», nato dalla perdita di una Paola identificatrice, di potersi scrivere e produrre come si scrive una pagina bianca e si produce un testo scritto. Tra gli anni Sessanta e Settanta, Certeau tematizza nuovamente questo rapporto, nel contesto di profonde trasformazioni che avevano segnato irrimediabilmente la crisi di istituzioni eredi di una logica moderna, centralizzatrice e tendenzialmente tecnocratica in una società che si organizzava in termini rizomatici. Osservando e analizzando il proprio tempo, Certeau ci ha descritto tattiche e strategie attraverso cui reinventare, nel quotidiano, la relazione tra soggetto e istituzione, invitandoci, in qualche modo, a sabotare quest’ultima dall’interno, a trasformarla in spazio, a deriderla, ad accettare il riconoscimento e il «luogo» che essa ci garantisce ma poi, una volta abbandonato il salotto buono, a prenderla in giro nelle «cucine».

Per certi versi, è l’operazione, politica, che compie nei confronti dell’istituzione del sapere scrivendo La possessione di Loudun, su un famoso caso di possessione del XVII secolo. Più lo storico si taceva, riproducendo nel testo lunghi estratti dagli archivi, più la sua presenza diventava ambigua e malgrado la mole documentaria selezionata, l’unica certezza era che «la storia non è mai sicura».

Lo storico di tutto rispetto che era Emmanuel Le Roy Ladurie, recensendo il libro, non poteva accusare Certeau di aver analizzato o scelto male le fonti. Tuttavia, non riusciva a trovare chi parlasse: non l’autore del testo, ma nemmeno il teologo o l’uomo di Chiesa, e nemmeno i protagonisti della storia, potendo solo concludere, abbastanza indisposto, che Certeau aveva scritto il libro più diabolico dell’anno.

Certeau ci lascia forse solo con l’indicazione di essere un po’ diabolici? La tentazione di fermarci a tale gesto e di fare, a pochi mesi dal centenario della nascita, l’agiografia dell’eretico è forte. Tuttavia, bisogna resistervi e poter proseguire con la sua opera il necessario dialogo critico che si deve all’eredità di un classico.

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