martedì 7 luglio 2009
La cerimonia pubblica dallo Staples Center di Los Angeles  in diretta mondiale tv. Una parata di star commosse davanti alla bara del cantante.
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Il re del pop è morto, lunga vita al re. Ieri Los Angeles e il mondo in­tero hanno celebrato la rimozio­ne dell’uomo Michael Jackson e di tutte le sue contraddizioni e l’instau­razione del suo simulacro. Come nel­la profetica copertina del suo HIStory, dove campeggiava un indistruttibile colosso di pietra avvolto nelle luci del tramonto. In centinaia di migliaia in una Los An­geles blindata come in guerra e un miliardo, si calcola, di fan in tutto il globo connessi grazie a un’impres­sionante copertura mediatica, uniti nella più spettacolare elaborazione del lutto della storia. E lui, il re, lì con loro. Perché la salma di Jackson, con­tro ogni annuncio e ogni previsione, è stata portata allo Staples Center per la commemorazione pubblica, se­guita alla cerimonia privata tenutasi alle prime ore del mattino (le 17 in I­talia) al cimitero di Forest Lawn. Quel corpo, negato a se stesso da intermi­nabili trasformazioni e ai suoi adepti da maschere e grandi occhiali da so­le, era lì. Nella bara di bronzo placca­ta d’oro e coperta da un manto di fio­ri rossi. Ultimo passo verso l’apoteo­si. Gli undicimila baciati dalla fortuna (in 1 milione e 600 mila avevano ri­chiesto il biglietto) hanno tributato nell’arena dei Los Angeles Lakers l’e­stremo saluto all’eroe di Thriller. Con loro i familiari (presenti i figli), gli a­mici e molte star. Diverse però le as­senze importanti. Debbie Rowe, l’ex moglie e madre dei suoi primi due fi­gli. E due amici intimi come Quincy Jones e Elizabeth Taylor. «Non credo che Michael avrebbe voluto che io condividessi il mio dolore con milio­ni di persone» ha detto Liz declinan­do l’invito: «Quello che sento appar­tiene a noi. Non è un evento pubbli­co ». La commemorazione è iniziata con qualche minuto di ritardo alle 10.10 (le 19.10 in Italia), con i messaggi in­viati da Nelson Mandela («Noi nutri­vamo grande ammirazione per il suo talento che per le sue capacità di vin­cere il dramma in così tante occasio­ni della sua vita») e Diana Ross, im­possibilitati a partecipare di persona. Poi la bara, accompagnata dalle note di un coro gospel, è stata posta ai pie­di del palcoscenico, avvolta da enor­mi mazzi di fiori. Sulla scena morbi­de luci blu, alle spalle un grande schermo proietta vetrate colorate, co­me se si fosse in una chiesa, e imma­gini della star. L’evento procede ovat­tato e raccolto, senza eccessi. Mariah Carey apre la scaletta in duetto con Trent Lorenz in I’ll be there, una hit del 1970 dei Jackson 5. Dopo di lei un commosso Lionel Richie in Jesus is Love. Sermoni e discorsi si susseguo­no a momenti musicali con i cantan­ti Stevie Wonder, Jennifer Hudson, U­sher, l’attrice Brooke Shields in lacri­me, le star del basket Magic Johnson e Kobe Bryant. Toccante l’esibizione del fratello Jermaine in Smile di Cha­plin, la canzone preferita da Michael. Si scivola lentamente verso il finale in cui tutti sul palco, figli compresi, han­no intonato We are the world (scritta da Jacko con Lionel Richie) e Heal the world. E prima dell’uscita della bara, le parole interrotte dalle lacrime di Paris, la figlia di Michael. Ma a luci ancora accese, il tributo al re del pop non ha mancato di susci­tare polemiche. Il costo per l’appara­to di sicurezza (1400 gli agenti di­spiegati) e per altri servizi, come le misure igieniche, è stato stimato in 2 milioni e mezzo di dollari. La casse della città di Los Angeles sono a sec­co per via della recessione. È qualcu­no si chiede chi alla fine pagherà il conto salatissimo.
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