Lo scrittore e autore Daniele Mencarelli - .
«La società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia », sosteneva Franco Basaglia, il papà della legge 180 con cui quarant’anni fa da noi venivano chiusi i manicomi. « Bisogna curarsi senza mai dimenticare tutte le lingue dell’umano», citazione anche questa di Basaglia, assai cara a Daniele Mencarelli, editorialista di Avvenire, poeta (scoperto e incentivato dai poeti laureati Milo De Angelis e Davide Rondoni), narratore, premio Strega Giovani 2020, della bella e fortunata trilogia autobiografica – La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza e Sempre tornare, (romanzi editi da Mondadori) – e ora anche autore di serie televisive come la più seguita del momento, su Netflix, Tutto chiede salvezza. Il racconto dei suoi sette giorni di ricovero in psichiatria per quel male di vivere emerso quando aveva 17 anni e che a lungo lo ha perseguitato con dipendenze dal alcol, droghe, che hanno segnato lui come molti della sua generazione dei giovani degli anni ’90.
Che differenza c’è Mencarelli tra quella che chiama «fatica di vivere» della sua generazione e quella odierna che avvertono i millennials.
Noi giovani degli anni ’90 abbiamo vissuto il crepuscolo dell’eroina, i ragazzi di adesso, la generazione digitale, ha una maggiore consapevolezza rispetto alle così dette droghe pesanti e riguardo all’alcol, ma le informazioni in loro possesso hanno sdoganato le droghe leggere e gli alcolici, ed entrambe, se utilizzate in modo massiccio, come purtroppo accade, portano a dipendenze altrettanto gravi. Se si ha una latenza psichiatrica questa inevitabilmente porta all'esplosione della malattia. Al dunque, i pericoli odierni non sono molto diversi da quelli che abbiamo sperimentato noi sulla nostra pelle negli anni '90.
I due anni di pandemia hanno aggravato queste problematiche psichiatriche nei giovani?
Il Covid ha costretto i ragazzi a chiudersi sempre di più nelle loro camerette. Molte famiglie che prima della pandemia avevano l’illusione di vivere nella “normalità”, a un certo punto hanno visto accendersi la scintilla del malessere nei loro figli. Un fenomeno diffuso, occidentale, da mondo ricco, in cui i giovani non vedono più nel lavoro e nella realizzazione futura l’unico traguardo sociale da raggiungere, ma chiedono con urgenza delle occupazioni che rispettino di più la loro vita privata. Questo per certi aspetti è positivo, a patto che non si sacrifichi il rapporto con gli altri e si arrivi al rifiuto della realtà. Invece, spesso accade il triste contrario: il ritiro sociale. Si vive dentro la propria casa in assenza di qualsiasi contatto umano.
Da qui il rifugio nel virtuale e nell’universo parallelo dei social che però sta creando un’altra forma di dipendenza...
Infatti. Prendiamo un prototipo di buon millennial: il liceale bravo a scuola, che non fa uso di sostanze e che passa la maggior parte del tempo in casa, chiuso nella sua stanza con tutti gli schermi, piccoli e grandi, collegati con la realtà virtuale. Ora la domanda è: quel ragazzo sta sviluppando tutte le sue potenzialità? Certo che no, e la nostra società si sta riempiendo di giovani così, autoreclusi che rifiutano il confronto con il mondo reale perché si sono convinti che quel piccolo spazio e quella minuscola porzione di vita, compresa e compressa nello spazio di una cameretta, può bastare alla loro sussistenza. Ebbene, questa pseudoconvinzione è la forma di dipendenza più pericolosa e nociva che ci possa essere in questo momento storico.
Presentando i suoi romanzi nelle scuole ha avuto modo di lanciare questo allarme ai diretti interessati?
Negli ultimi quattro anni avrò incontrato almeno 50mila studenti e sono ancora in contatto con molti di loro. Ogni volta gli racconto la mia esperienza e gli ricordo che la mia generazione si è fatta del male con le droghe e quant’altro, ma almeno si è sempre confrontata con il mondo reale là fuori. Voi, ripeto ai ragazzi ad ogni incontro, in un microsecondo con un semplice clic ricevete miliardi di informazioni, ma il battesimo della realtà non mettetelo mai in discussione, anzi dategli sempre la priorità, altrimenti rischiate di diventare degli automi.
Qualche critico sostiene che anche le serie tv stiano diventando una forma di “dipendenza” per il pubblico giovane.
C’è sicuramente molta offerta sulle piattaforme e nella massa delle proposte ci sono anche quelle di scarsa qualità, quindi nocive. Ma io stimo sempre di più i nostri figli, i quali stanno sviluppando una capacità critica tale che gli consente di selezionare al meglio ciò che vedono in tv. La riprova la sto avendo con Tutto chiede salvezza: tantissimi ragazzi hanno visto la serie per intero (7 episodi) e sui social ho letto delle analisi profonde e approfondite, riflessioni in controtendenza con la brevità e la velocità dei loro standard comunicativi in 140 caratteri. E questo a riprova che alzando il livello delle serie tv e se hai la capacità di parlare al cuore delle persone, i messaggi arrivano eccome, e spesso possono incidere ancora sulle coscienze, specie sue quelle più giovani e in formazione.
Qual è il messaggio più importante che intende lanciare con Tutto chiede salvezza?
Che esistono varie forme di salvezza. C’è una salvezza laica, come la lotta alle diseguaglianze sociali e c’è una salvezza spirituale di chi spera sempre, come me che mi definisco un “aspirante credente”. Con la serie, e prima ancora il romanzo, si è creato un clima di fratellanza con persone che hanno riconosciuto nei miei dolori i propri. So di ragazzi che hanno interrotto la loro spirale distruttiva e recuperata la voglia di tornare a provarci. Questa è la cosa più bella: storie come Tutto chiede salvezza possono diventare scintille, soprattutto per ricordare a tutto e tutti che umanità e fragilità sono in fondo la stessa cosa.