Fausto Melotti, Bambini, 1960 circa. Collezione privata - courtesy Hauser & Wirth, photo courtesy Fondazione Fausto Melotti, Milano
Parecchi anni fa, correva ancora la lira e l’euro aveva soltanto un valore prossimo venturo, peregrinando per Milano con un amico, ci ritrovammo davanti alle vetrine della Galleria di Jean Blanchaert, dove era possibile trovare vari oggetti d’arte applicata e decorativa, e in particolare vetri e vasi, suppellettili argentate e dorate, ceramiche, sedie e altre cose preziose. Qualche metro più in là, addossate a una parete, vedemmo delle maioliche tra l’azzurrino e il verde, montate come se dovessero rivestire una stufa, di quelle tipiche austriache. Quella sera passò anche Philippe Daverio, che, se non ricordo male, era ancora l’assessore alla cultura della giunta Formentini. Mentre Daverio magnificava il fasto minimalista di una chaiselongue africana, una delle tipiche palaver che prendono il nome dalla funzione rilassante di far chiacchiere, col mio amico ci avvicinammo alle piastrelle ceramicate e con vera sorpresa, aiutati da Blanchaert, riconoscemmo alla fine l’autore dell’opera, Fausto Melotti. Era morto nel 1987 e la sua fama non era ancora stellare come quella che ha raggiunto oggi, dopo la cura internazionalista di Germano Celant, che ne fece una punta di diamante del-l’astrattismo plastico del Novecento.
L’arco di attività di Melotti nella ceramica durò alcuni decenni, dagli anni Trenta ai Sessanta. Imparentato, come cugino, con lo scrittore e teorico, ma anche musicologo e pittore Carlo Belli, che nel 1935 pubblicò il manifesto dell’astrattismo italiano, Kn, lo stesso Melotti fu attirato dalla musica, ma soprattutto dalla matematica e la geometria, che cercò di fondere in un composto poetico dove il rigore si dipana nella risposta astratta come armonia. In qualche misura, la ceramica lo rendeva succube delle questioni pratiche e del commercio con le leggi della materia che per quanto traslucida e sottile non riesce mai a farsi tecnicamente “assenza”, concetto, vetro o pura immagine musicale, e per questo è posta da Melotti in grado minore. Come Pigmaglione egli s’innamorò della sua scultura, quasi temesse il contatto sensuale con la materia: è un ideale platonico iperuranico, e lui, come lo gnostico greco, rifuggiva la contaminazione con l’impuro. Coraggiosamente, Ilaria Bernardi introducendo la mostra sulla ceramica di Melotti che ha curato per la Fondazione Ragghianti in collaborazione col Mic di Faenza e la Fondazione intestata allo scultore, avanza il dubbio che questa «non avrebbe forse fatto molto felice l’artista». E aggiunge francamente: «È però atteggiamento comune a molti quello di ostinarsi a volere essere riconosciuti in un certo modo, negando o sminuendo una parte di quello che si è o si è stati» (anche questo forse lo avrebbe ferito. Ma tant’è).
Io credo che un simile legame fosse in Melotti l’esito di un possibile tradimento verso la propria idea di arte pura e in questo, forse, pagò troppo l’adesione, o se vogliamo la soggezione intellettuale, al magistero del cugino Carlo. Melotti tenne la mostra “decisiva” nel 1935, la sua prima – proprio nell’anno in cui Belli pubblicava il suo manifesto –, alla galleria Il Milione fondata dai Ghiringhelli, dal 10 al 24 maggio. Espose diciotto sculture, come scrive Ilaria Bernardi, «di assoluta purezza geometrica e rigore formale »: nella copertina del piccolo catalogo- rivista era visibile una scultura in metallo e fili che sembra allungarsi in verticale come lo strumento musicale di una moderna arpista che disegna un tempo immaginario. Nella presentazione Melotti scrive: «Quando l’ultimo scalpello greco ha finito di risuonare, sul Mediterraneo è calata la notte. Lunga notte rischiarata dal quarto di luna (luna riflessa) del Rinascimento. Ora sul Mediterraneo noi sentiamo correre la brezza. Ed osiamo credere sia l’alba». In quegli anni Il Milione è uno dei luoghi dove si celebra l’astrattismo con le opere di Reggiani, Soldati, Veronesi, Munari, Radice, Fontana, Licini, Magnelli.
Nel catalogo della mostra che si tiene fino al 25 giugno a Lucca non avrebbe guastato poter vedere qualche foto di quell’esposizione e delle sculture nelle quali Melotti riponeva i raggi di un’alba che invece gli diede parecchie delusioni. L’ideale melottiano è quasi un misticismo della luce e del numero aureo. Una misura greca che purifica la natura e la sublima in una forma che non è più materia né corpo, sem-mai, pur senza semplificare, è anzitutto musicalità, quella dell’Orfeo bianco, sciamano che anima nel vuoto le silhouette e le architetture più impalpabili. Il catalogo del Milione in copertina riferiva che sono «tutte dell’anno 1934 e più recenti», realizzate con materiali diversi: gesso, creta, bronzo e metallo verniciato o cromato. Nonostante l’insuccesso, nel 1936 Melotti collabora con lo studio d’architettura BBPR nella Sala della Coerenza (!!) alla Triennale di Milano: elementi astratti si dispongono, come uno spartito, di fronte alle statue in gesso bianco dei Savi (una ventina d’anni fa un architetto milanese mi raccontò la sua disavventura quando la donna delle pulizie, spolverando uno di questi “birilli” giganti, lo fece cadere riducendolo in mille pezzi).
Fausto Melotti, Vaso, 1950 circa. Collezione privata - courtesy Hauser & Wirth, photo courtesy Fondazione Fausto Melotti, Milano
La scultura dunque non gli dava il pane, come disse nell’intervista con Antonia Mulas, di cui viene presentata in mostra una registrazione video del 1984, raro momento in cui parla della ceramica a cui si è dedicato solo per ragioni che considerava prosaiche. Evidentemente gli anni Trenta non furono un momento propizio per la ceramica, che ancora scontava alcuni pregiudizi del collezionismo riguardo alle arti applicate, anche se sono proprio quelli gli anni dove la sperimentazione in questo campo si arricchisce di varie esperienze anche sui materiali. Ancora alla fine degli anni Trenta su “Domus” Gio Ponti pubblicava pochissima ceramica, intesa come manufatto semiartigianale, poca nella pubblicità, ma anche nelle foto di arredamento dove si vedevano rari oggetti ceramici sui mobili, e di scultura in terracotta neanche l’ombra.
Melotti, in fondo, cercava di sottrarre la ceramica alla condizione di utile suppellettile e di arte decorativa, rischiando il lirismo idealista. La Madonna col Bambino del 1930, ma anche il Tricheco del 1932, nascono da una intermediazione di Gio Ponti, che lo mette in contatto con Ginori per produrre ceramiche di design, in queste due opere in particolare Melotti paga l’influsso di Martini e del realismo magico. Ma la collaborazione con Ponti s’intensifica e l’artista roveretano produrrà oggetti ceramici d’arredamento per navi da crociera e hotel in Italia in Iran e Venezuela, e così il suo nome divenne celebre e remunerato (Fornasetti e Ponti, per esempio, hanno collaborato per una vita senza mettersi foglie di fico che distinguano fra ceramica e scultura.
D’altra parte, proprio due mesi fa è uscito il catalogo generale delle terrecotte di Fontana che dimostra come la vibrante e la virtuosa facilità della mano possa produrre pezzi unici eccellenti nella materia più umile facendola diventare scultura). La mostra, suddivisa in tre sezioni, tenta un confronto fra le tipologie melottiane e i pezzi di altri scultori ceramisti: lo stesso Fontana, con un Crocifisso nero e oro del 1950, affiancato alla scultura di Melotti Lettera a Fontana del 1944, e così quelle di Scanavino, Valentini, Sassu, Martini, Sottsass, Munari, Balla, Mari, Leoni. Anche un grande San Sebastiano di Leoncillo del 1962 che, a dire il vero, c’entra poco con le altre cose di Melotti, poiché segna il decennio eroico di ostetricia su una materia che si espone come corpo squartato e sanguinante.
Non c’entra, non perché le ceramiche dello spoletino con possano trovare un dialogo, anche a distanza, con Melotti, ma perché questa relazione va colta agli inizi di Leoncillo, che Longhi, perfidamente, aveva ricondotto al “barocchetto” intuendo però che in lui scultura era come pittura, «strappi tonali» ovvero «tracce di buona poesia”», in fondo avvicinandosi a quella sublimazione melottiana dove non c’è più la materia ma l’elisir di lunga vita attraverso cui l’arte si sottrae alla prigione del corpo (da qui l’antiscultura, che poi inseguirà come limite concettuale nei “teatrini”).
Sinisgalli nel 1940 su “Domus” aveva evocato gli enfants terribles della scultura italiana, Leoncillo stesso e un altro gigante, Salvatore Fancello, per molto tempo caduto in ombra perché morto a soli 26 anni sul fronte albanese nel 1941: fece tempo però a esporre alla Triennale, a creare non so quanti presepi (una dozzina di figure sono al Mic di Faenza), formelle con zodiaci, sculture di animali e un grande rilievo in vari elementi ceramici che figura ancora alla Bocconi a Milano (gli era stato commissionato da Pagano e Ponti illustrò due o tre copertine di “Domus” con le sue ceramiche). Ecco, Fancello è un’assenza pesante dalla mostra di Lucca perché credo che le sue terrecotte invetriate e riflessate l’artista sardo le abbia eseguite ad Albissola e a Padova prima di Fontana e di Luigi Broggini, altra assenza di rilievo in questa mostra. In ogni caso, Fancello fu autore di un notevole bestiario, che non avrebbe guastato messo di fianco a quello, più stilizzato, di Melotti.