Jacques Maritain, Raissa e Vera - dal libro "I tre Maritain" di Nora Possenti Ghiglia/Ancora
A quasi mezzo secolo dalla scomparsa, qual è l’eredità d’un gigante del pensiero novecentesco come Jacques Maritain (1882-1973)? Capace subito di catturare l’attenzione del mondo accademico e intellettuale transalpino, un’opera monumentale in tre tomi fresca di stampa, intitolata Feu la modernité? Maritain et les maritainismes (Arbre bleu), si rivela estremamente preziosa per riflettere in questo senso. L’opera si deve allo storico Michel Fourcade, docente all’Università di Montpellier 3, attento tanto all’impegno politico, quanto alla portata mistica della lunga parabola del grande filosofo e della sua sposa Raissa.
Su Maritain, lei scrive che ci furono «ferite nel suo percorso, compassione nel suo sguardo, come un lamento nel suo stile»…
È stato un contemporaneo del grande sisma della modernità e della sua crisi sanguinosa, soprattutto durante le due guerre mondiali. Cercò sempre faticosamente di 'salvare' o di 'riscattare il suo tempo'. L’ho seguito fino al giugno 1940, quando scrisse nel suo taccuino: «Urlate come gli abeti di Zaccaria, foreste, colline, belle piane del mio Paese… Un’Europa è morta, quella che ho conosciuto, quella che amavo. Più la vedevo malata e più l’amavo. Più gridavo che stava per morire e che Dio voleva del nuovo (mi è stato rimproverato) e più l’amavo». Su un altro piano, più propriamente metafisico, il suo tomismo «esistenziale » voleva raggiungere l’uomo in ogni sua ferita.
La sua fama sembra aver un po’ patito in quest’inizio di secolo. Che ne pensa?
Maritain affrontò le questioni più scottanti della sua epoca, cambiando così più volte le proprie cerchie d’amici, lungo diversi 'maritainismi', come li chiamo. Non pochi dei suoi discepoli faticarono a seguirlo sempre, con un rapporto complesso d’adesione e distanza. Poi, dopo la guerra, Maritain si allontanò dai dibattiti interni francesi, prolungando la propria testimonianza a Roma, a Princeton e nel suo ritiro contemplativo a Tolosa. Nondimeno, l’oblio resta relativo: l’opera di Maritain è disponibile e studiata nel mondo intero, e lo si ritrova presto, sfavillante dal 1914 fino al Concilio, a ogni crocicchio del XX secolo, non appena si approfondisce la sua eredità.
Uno dei suoi grandi meriti fu di far atterrare «il pensiero di san Tommaso d’Aquino in strada»?
Decretando la «rinascita tomista» nel 1879, Leone XIII intendeva già fare del Dottore medievale «l’apostolo dei Tempi moderni». Ma è con Maritain, fin dagli anni Venti, che la dottrina di san Tommaso entra davvero in una fase laica, confrontandosi con le concezioni più nuove, ispirando l’arte e la cultura, rinnovando la teologia politica, entrando nei dibattiti fra i progetti di società e fra le antropologie. Pur fedele al suo ancoraggio nella scolastica, il tomismo è così ridefinito da Maritain come «un’opera aperta a ogni realtà, ovunque essa sia, e a ogni verità, qualunque sia la sua origine», un’opera in movimento e sempre progressiva che mobilita nuovi generi di operai.
Come lei osserva, Maritain seppe pure proiettarsi verso l’avvenire…
Per questo, a ben guardare, non conobbe mai vere sconfitte. In un itinerario certamente doloroso segnato da traslochi e ponti umani interrotti, Maritain ritrovò sempre nuovi amici, discepoli, riviste, reti, energie collettive che permisero al suo lavoro di fruttificare lasciando un segno duraturo. Étienne Gilson gli scrisse nel 1949: «Caro amico, non dubiti: lei non ha ancora generato molti manuali, eredità triste per quanto necessaria, ma ha permesso al nostro maestro, san Tommaso, di trasformare tutto». Ho potuto verificare personalmente quest’analisi.
Fra gli slanci audaci di Maritain, quali possono raggiungere ancora i lettori di oggi e quelli credenti?
È difficile legare a tal punto, al pari di Maritain, l’incarnazione e l’escatologia. Oltre che nel suo pensiero ispirato, ciò fu vero pure nel suo stile di vita, con la moglie Raïssa. Si definivano dei «contemplativi in cammino» e degli «ebrei erranti della filosofia cristiana». Come disse Paolo VI alla morte di Maritain, questi resta un «maestro nell’arte di pensare, di vivere e di pregare». E quali che siano i propri interessi, ciascuno potrà trovare nell’opera una porta d’ingresso: per me, scoprendo le sue testimonianze a 20 anni, fu innanzitutto il suo pensiero politico impegnato nella Guerra e il rifacimento dell’ideale democratico, ma pure la sua metafisica profonda e la sua contemplazione, dopo Auschwitz, di un «Dio senza idea del male».
Che tipo di rapporto ebbe con la modernità?
La modernità agli sgoccioli, alla quale Maritain si oppose vivamente nelle sue prime opere, la stessa della quale intese «liberare le verità prigioniere» e che volle «superare» con una dialettica «antimoderno- ultramoderno», era la stessa divenuta poi catastrofica con la Prima Guerra mondiale, la grande crisi economica, lo sfinimento ideologico e sociologico delle democrazie, dei totalitarismi. Si sforzò di trovare vie spirituali e culturali, radicate nella mistica e nella metafisica, poi pure delle vie politiche, per uscire da questo labirinto di una civiltà crepuscolare: chiese a questa modernità sfinita di rifondare il suo progetto all’interno di un Umanesimo integrale (1936), grazie a un’«autocritica della ragione» e chiedendo al Cristo la chiave antropologica.
Lei parla della duratura «fiamma accesa a Meudon», con riferimento al sobborgo collinare, con vista sopra Parigi, scelto dai coniugi Maritain. Una scelta residenziale a suo modo simbolica del “maritainismo”, oscillante fra preoccupazioni scottanti del proprio tempo e contemplazione?
La casa di banlieue in cui abitarono fra il 1923 e il 1939 esiste ancora. E quegli anni sono ben documentati grazie a I grandi amici, celebre opera di Raïssa, e tante altre testimonianze: conversioni, incontri decisivi, creazioni di collezioni, di riviste importanti o di gruppi militanti, in un flusso permanente di persone, oscure o celebri, venute da ogni orizzonte. Uno di questi convertiti, il compositore Nicolas Nabokov, scrisse: «È una grande grazia trovare nella propria notte un Meudon e di averlo sempre». Ma la stessa fecondità amicale seguirà i Maritain dappertutto, a New York, a Roma, a Princeton dal 1948 al 1960, o a Kolbsheim, villaggio d’Alsazia divenuto la loro base francese dopo la guerra, dove sono sepolti, mentre i loro immensi archivi sono stati ceduti recentemente alla Biblioteca universitaria di Strasburgo. Così, “Meudon” non designa solo un luogo, ma la vocazione eccezionale di una coppia che seppe mostrarsi disponibile a tutte le avventure dello spirito e della “grazia”.