Lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa nel maggio scorso in Messico - Epa / Francisco Guasco
Nella lectio magistralis “La vida y los libros”, pronunciata nel 2018 a Milano all’Università Cattolica, lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa fece un elogio della letteratura come antidoto al potere dei regimi, sostenendo inoltre che la civiltà si impoverirebbe molto se la letteratura sparisse o se diventasse un puro divertimento, uno svago passeggero e superficiale. La minaccia allo spirito del romanzo oggi viene non solo dalle dittature di vario tipo, da quei sistemi autoritari che vorrebbero controllare interamente la vita umana, ma dalla riduzione della letteratura a puro intrattenimento, dal rischio della stupidità connesso al dominio della civiltà dell’immagine su quella della scrittura. Disse il premio Nobel per la letteratura del 2010: « Non sono un nemico della televisione e del cinema, al contrario, mi piacciono moltissimo i film e le serie televisive quando sono di buona qualità. Tuttavia credo che se permettiamo, come sfortunatamente sta già succedendo, che si instauri un conflitto tra il libro e lo schermo, la guerra sarà irrimediabilmente persa dal libro. I libri non spariranno, ma saranno messi da parte: i libri che rappresentano la grande tradizione creativa saranno sostituiti dal “libro divertimento”, dal “libro svago”, dal “libro non problematico”, e dunque sarà lo schermo a portare avanti il bisogno di inventare storie, quella necessità di irrealtà che è inseparabile dalla condizione umana. Quel mondo sarebbe migliore di quello che esiste ora? Probabilmente no, probabilmente sarebbe un mondo senza libertà».
Gli stessi concetti sono ribaditi ora dallo scrittore nel volume Davanti allo specchio, appena tradotto da Mimesis (pagine 258, euro 20,00), che riunisce una serie di interviste realizzate dal giornalista spagnolo Juan Cruz Ruiz fra il 1989 e il 2022 e uscite su vari quotidiani – la maggior parte su El Pais – e riviste. Vargas Llosa affron-ta tantissime questioni fra cultura e politica, smentendo più volte nel corso di queste conversazioni di essere un conservatore. Così infatti l’ha dipinto la stampa progressista sudamericana ed europea dopo il suo distacco dal marxismo e la rottura dell’amicizia con García Marquez in particolare. Già nella prima intervista, realizzata nel giugno 1989 e intitolata appunto “Non sono un reazionario”, così si esprime: « Io sono per il cambiamento, per le riforme radicali. Non credo che le riforme radicali oggi possano fondarsi sulla crescita dello Stato. Io sono favorevole alle soluzioni liberali, e in America Latina essere liberale vuol dire essere rivoluzionario. Non sono conservatore perché il conservatore vuole che le cose restino come sono. E io non voglio che la dittatura e l’intolleranza continuino a imperare in America Latina».
Fu a partire dagli anni Sessanta, quando abbandonò il suo sostegno alla rivoluzione cubana e a Fidel Castro, intuendo gli aspetti violenti e antidemocratici del regime, che l’autore peruviano cominciò a subire invettive e insulti. In un dialogo del 2006, lo scrittore racconta, dopo averlo sostenuto e frequentato per tanti anni, il suo ultimo incontro con Fidel nel 1966, l’ammissione da parte del dittatore cubano degli abusi commessi, durante una notte intera trascorsa a discutere. Ma ormai la crepa si era creata: la disillusione definitiva rispetto al marxismo avvenne dopo la primavera di Praga, con l’invasione russa e i carri armati sovietici nella capitale cecoslovacca.
Da Sartre a Popper e Camus: è questo l’itinerario compiuto da Vargas Llosa nel suo riconoscimento del valore supremo della libertà di pensiero e di espressione. «Ho cambiato idea rispetto a Sartre – spiega – che era uno dei pensatori che più ammiravo da giovane. È stato il mio mentore, in un certo senso. Ciononostante, c’è qualcosa in Sartre, nella sua idea di impegno, con cui non mi trovo d’accordo». Ed è l’appiattimento sul marxismo il motivo del dissenso. Non che Vargas Llosa abbia rinunciato completamente all’engagement, anzi. Come sottolinea ancora: «Non mi piace l’idea dello scrittore isolato sotto una campana di vetro, come Marcel Proust. La letteratura che si preoccupa della realtà sporca è una letteratura che vive».
Della lezione di Karl Popper egli ammira la lotta contro il pensiero unico, contro le dittature e la barbarie, mentre di Albert Camus l’umanesimo laico, la passione per l’uomo che vien prima delle ideologie. Invece, «la letteratura di Sartre risulta irreale, quasi del tutto svincolata dall’esperienza viva». In molti altri passaggi lo scrittore, nato ad Arequipa nel 1936 e oggi residente a Madrid dopo aver vissuto a lungo anche a Parigi e Londra, torna sulla rilevanza del romanzo e della poesia nella civiltà dello spettacolo. «Io credo che la letteratura – così si esprimeva nel 2007 – arricchisca in modo straordinario la nostra visione della realtà, la visione della storia, delle problematiche nelle quali siamo invischiati per il semplice fatto di essere vivi. Credo che sia in grado di renderci straordinariamente sensibili. Comprendiamo più a fondo l’essere umano, i limiti, concepiamo la vita come problema, una cosa che molte persone non sanno fare proprio perché non conoscono quel pungolo che proviene dai libri, dalle idee che i libri trasmettono». Certo, la cultura può essere vissuta anche come piacere e divertimento, basti pensare a cosa può significare guardare un film, andare a un concerto o visitare una mostra, ma se essa diventa puro svago perde la sua funzione vera, che «è quella di offrire risposte alle grandi incognite di cui è fatta la vita».