È l’allenatore italiano più vincente delle ultime stagioni e forse anche il più ricco “disoccupato” in circolazione. Con l’Inter ha vinto sette tituli in quattro anni (tra i quali 2 scudetti in campo, più un 3° assegnato d’ufficio) come direbbe il suo “speciale” successore Mourinho e solo per restare fermo, il presidente Massimo Moratti dovrebbe ancora versargli 6 milioni di euro fino al 2012. Ma è dal pomeriggio delle beffe dell’8 giugno scorso che non allena: 13 mesi, 400 giorni senza una panchina.
È il caso di citare il poeta Attilio Bertolucci: “Assenza più acuta presenza”... «È la prima volta, negli ultimi trent’anni, che mi capita di fare una vacanza più lunga di un mese. Ho riscoperto il gusto di andare in bicicletta e di dedicarmi a tempo pieno a tutti gli sport, però la smania di tornare è cominciata da un pezzo...». In tutto questo tempo c’è una cosa del calcio che non gli è mancata? «Le polemiche, la strumentalizzazione gratuita per ogni frase che dico e che viene sempre usata per mettermi contro qualcuno. Nel chiacchiericcio, spesso si perde di vista quello che è l’elemento più importante, e cioè l’uomo».
Il calcio l’ha fatto diventare uomo in fretta? «A 13 anni ero già fuori di casa. Mia madre non voleva che lasciassi Jesi per andare al Bologna, papà invece aveva capito che il calcio era il mio futuro. Oggi, da padre, posso dire che ai miei figli non avrei permesso di andare via di casa a quell’età». Si ricorda le prime magie del Mancini “bimbo prodigio”? «All’oratorio di San Sebastiano, sotto casa. I primi gol li ho segnati al campetto dell’Aurora davanti agli occhi del parroco, Don Roberto».
Gol ed esordio in A, a 16 anni, “benedetti” dal cielo… «Dio mi è sempre stato vicino, mi ha indicato le strade e le compagnie giuste. Al resto hanno pensato i miei genitori che mi hanno insegnato il rispetto per gli altri e soprattutto a non provare mai invidia, questa credo sia la vera peste odierna». E nel mondo del calcio chi l’ha guidato? «A Bologna ho avuto la fortuna di trovare un consigliere straordinario come Paolo Borea che poi mi ha portato alla Samp. Lui è molto più di un direttore sportivo, un signore vero, non se ne trovano più nel nostro mondo».
Giudizio che vale anche per il presidente della sua Samp, Paolo Mantovani? «A volte penso che uno come Mantovani non sia mai esistito. È stato un sogno, un uomo troppo grande per essere vero. Parlava una volta l’anno, ma quando apriva bocca era fulminante, gli bastavano due parole per arrivare al cuore dei giocatori. Oggi i presidenti invece non stanno mai zitti, fanno interviste ogni tre giorni. E per dire cosa?... Creano solo confusione».
Allude a Berlusconi che lei ha detto: “Ora al Milan farà la formazione anche a Leonardo...”? «Quella era una battuta - sorride - . Io posso parlare solo di Moratti e qualche volta ci ha provato anche lui a farmi la formazione, magari spingendo per mandare in campo qualche giocatore che gli stava più a cuore. Ma non c’è riuscito, anche perché penso che non sia giusto che un presidente interferisca sulle scelte tecniche. Questo è uno dei mali peggiori del nostro calcio».
L’ingerenza dei vertici è davvero così deleteria? «Le gerarchie: presidente, ds, responsabile area tecnica, team manager, qui da noi non fanno altro che complicare tutto e alimentare le pressioni. La mancanza di chiarezza e trasparenza nelle decisioni, unita a una cultura sportiva sempre più scarsa e agli stadi più brutti d’Europa, hanno messo in crisi il calcio italiano. Siamo in uno stato di inferiorità evidente rispetto a quello inglese e spagnolo». Ci sta dicendo che è un sistema da rivedere in toto, ma almeno siamo fuori da Calciopoli? «Penso e spero di sì, anche se le mie lamentele contro gli “arbitri sospetti” mi pare che non erano tanto distanti dalla realtà…».
La realtà di oggi è ancora fatta di stipendi gonfiati e giocatori acquistati per 94 milioni di euro… «Sono cifre eccessive, ma tutto nel calcio moderno è eccessivo. Quando ho cominciato a giocare c’era una telecamera in campo, adesso sono cento e non si fischia l’inizio di una partita se prima i club non hanno sistemato i contratti dei diritti televisivi».
Ai suoi figli Filippo e Andrea che hanno intrapreso questa strada (giocano nel Monza) cosa ha detto?«Cerco di difenderli dai paragoni ingombranti con un padre che si chiama Roberto Mancini. Finché vorranno si divertano nel fare sport che aiuta a rimanere sani fisicamente e nello spirito. Gli auguro di essere felici e che si sentano realizzati prima di tutto come uomini».
Lei una volta ha detto che Macina al Bologna era molto più forte di lei, come mai si è perso? «Macina è stato il miglior talento della mia generazione, ma gli piaceva andare in discoteca, giocare a carte e ai cavalli. Il talento a volte non basta se non ci metti la testa e la giusta dose di sacrificio».
A proposito di talenti: Ibrahimovic e Balotelli non sorridono più quando fanno gol e minacciano continuamente di fuggire dall’Italia?«Ibra forse dopo aver vinto tutto negli ultimi tre anni ora sente l’esigenza di andare a fare un’altra esperienza. Con me Balotelli ha esordito a 17 anni ed è sempre stato sereno e rispettoso. Mi fa male sentire certi cori e quell’atteggiamento di intolleranza nei suoi confronti, ma del resto viviamo in un Paese in cui si è innescata la paura del “diverso” e questa negli stadi è amplificata».
Mancini è stato uno degli ultimi numeri “10”, ci dia una definizione di questo ruolo. E soprattutto, esistono ancora in serie A? «Il “10” è quel giocatore che spiazza tutti con una giocata di cui forse neppure lui ha piena consapevolezza. In Italia ne è rimasto soltanto uno, Francesco Totti».
Cassano, il suo erede alla Samp, rischia di diventare un “genio incompreso” in azzurro come lei? «Cassano paga gli errori del passato. Ma Lippi penso sappia bene che un giocatore come Antonio con il tempo è maturato e si è ravveduto, quindi se lo chiama in Nazionale può solo tornargli utile».
Chi è in questo momento il miglior allenatore al mondo?«Non esiste. Invece esiste il più vincente in un determinato momento che non è necessariamente quello che porta a casa coppe o scudetti, ma piuttosto è un tecnico capace di dare un’impostazione a un gruppo e di ottenere risultati pur non avendo a disposizione undici campioni. Il tecnico perfetto non c’è, di perfetto c’è solo Dio».
Quindi è inutile proclamarsi “speciali” solo perché si allena una squadra di calcio. «Di uomini speciali, cioè con un carisma fuori dal comune, ho conosciuto Papa Wojtyla. E poi Alex Zanardi: penso che dopo l’incidente che ha avuto la sua voglia di vivere debba essere d’esempio per tutti».
Per quei bambini e quelle persone meno fortunate che vi guardano come degli idoli, lei si sente un esempio?«Cerco di fare quello che posso per chi soffre e so che tanti si adoperano nel sociale insieme alle innumerevoli fondazioni sorte in seno alle società di calcio, ma non trovo sia necessario sbandierare la solidarietà. Ciò che conta è sapere che una nostra buona azione può recare beneficio agli altri ».
Fabio Capello rimane ancora un suo “nemico”?«Con Capello non c’è mai stato e forse non ci sarà mai feeling, ma ciò non toglie che tra noi regni un rispetto professionale reciproco».
In questi mesi l’hanno accostato alla nazionale giapponese e almeno a una dozzina di club europei, ma qual è il suo vero progetto futuro? «Lavorare con i giovani, veder crescere un gruppo con un programma preciso. I miei due principi fondamentali non sono certo il denaro e la vittoria a tutti i costi, ma il divertimento e la possibilità di educare attraverso il calcio. È quello che faccio da una vita».
Si è lasciato qualche rimpianto alle spalle? «Se all’epoca avessi giocato nella Juve, nel Milan o l’Inter, un paio di Palloni d’oro li avrei portati a casa anche io. Però l’unico rimpianto vero rimane la finale di Coppa dei Campioni a Wembley persa con il Barcellona. Un dolore forte, sapevamo che quella sarebbe stata la nostra prima e ultima occasione...».
Una ferita aperta che si può ancora rimarginare? «Fino a quando andrò in panchina non avrò altro scopo se non quello di riprendermi quella Coppa che avrei meritato da giocatore. Adesso sono pronto per andarla a vincere da allenatore».