Anche se il suo nome, Malala, ha origini nella leggenda – quella di Malalai di Maiwand, guerriera e poetessa pashtun del XIX secolo che fu uccisa per aver parlato liberamente –, la sua vita non è affatto una fiaba. Il 9 ottobre del 2012 una pallottola tentò di fermarla per sempre, quella vita, annientando non solo il corpo di una quindicenne, ma ciò che rappresentava per la sua comunità e il suo Paese. Era la voce, come lei stessa disse due anni dopo a Oslo ricevendo il premio Nobel per la Pace – a soli diciassette anni, la più giovane della storia –, di sessantasei milioni di bambine alle quali viene negato il diritto alla scuola, all’istruzione, alla conoscenza. Il film
Malala – da oggi in sala – diretto dal celebre documentarista Davis Guggenheim, è il ritratto intimo di questa ragazzina pachistana vissuta nel distretto di Swat e che, per la follia del regime talebano di cui è stata bersaglio e vittima, è divenuta un simbolo di giustizia e libertà. Gugghenheim ha girato per diciotto mesi con tutta la famiglia Yousafzai in Inghilterra, dove si è rifugiata, e sulle strade di Nigeria, Kenya, Abu Dhabi e Giordania, dove Malala si è recata per visitare scuole, incoraggiare i coetanei, incontrare i potenti. Il film cerca di riportare questo personaggio, sottoposto a una fortissima pressione mediatica, alla sua dimensione umana e familiare, dominata dalla premurosa presenza del padre Ziauddin, il quale non nasconde di essere, con la figlia, «una sola anima in due corpi diversi».«Il mio approccio istintivo – conferma il regista – è stato raccontare soprattutto la storia di una famiglia, la storia dell’amore di un padre e di una figlia che si sente sostenuta e autorizzata a fare cose bellissime. Sarebbe stato facile raccontarla in modo magniloquente e sensazionalistico. Ma non era questo che mi interessava. La cosa più straordinaria della storia di Malala è la sua famiglia, i suoi rapporti e le scelte che hanno fatto nelle loro vite». Il film, che è soprattutto la voce di Malala, i suoi ricordi – che prendono forma con l’aiuto di una delicata animazione –, le sue confessioni e aspirazioni, è costruito attorno ad una giornata quotidiana: il rapporto piuttosto turbolento con i due fratellini, i compiti con le amiche, i voti a scuola, guardare i Minions sul tablet, pensare a quando incontrerà il primo ragazzo e se ne innamorerà. Anche se il ricordo di quell’autobus macchiato del suo stesso sangue e quello di due compagne non l’abbandona mai: «Credevano che i proiettili ci avrebbero zittiti – dice –. Ma nella mia vita non è cambiato niente a parte questo: la debolezza, la paura e il pessimismo sono morti; sono nati la forza, la potenza e il coraggio». Ne ha tanto, Malala, mentre cresce, studia, si dedica alla missione scaturita da quel fiotto di sangue, dall’amore per il suo Paese, il Pakistan, e dalla fedeltà all’islam, per lei religione di pace e di dialogo («Per me Dio non è come dicono loro, i talebani»), che si traduce in assenza di rabbia per ciò che le è successo – lo ripete più volte – e in generosità, sincerità, affetto. Quello di cui Malala è davvero circondata e che l’aiuta anche nei suoi compiti istituzionali, quando parla con Obama, la regina d’Inghilterra Elisabetta e l’ex presidente della Nigeria Jonathan: al quale si rivolge con franchezza, sostenendo l’intervento per la liberazione delle duecento studentesse rapite da Boko Haram. Il padre Ziauddin le è sempre al fianco, per ricordarle l’importanza dei vincoli familiari: «Credo che ogni famiglia sia come un piccolo Stato – dice –. Ha la sua costituzione, le sue regole, i suoi valori e se i suoi valori sono basati sulla parità, sulla giustizia, sull’amore, sul rispetto, ogni famiglia può essere meravigliosa. Sono i nostri valori ad averci resi così felici». E così forti. Malala sembra essere gracile, dopo che scorrono le immagini girate nell’ospedale militare di Peshawar all’indomani dell’attentato subito tornando dalla scuola verso casa, nella città di Mingora. Odio esasperato, clima di intolleranza inarrestabile generato dal regime dei talebani, che Guggenheim rievoca e attualizza con poche immagini significative e la voce di Maulana Fazlullah, soprannominato “Radio Mullah” per i suoi ferventi discorsi radiofonici, che dal 2007 aveva preso il controllo di quasi tutta quella splendida valle. «Basta distruggere una scuola – proclama – per ricevere la benedizione di Dio». Ne rasero al suolo quattrocento, privando quarantamila ragazze del diritto all’istruzione.Gugghenheim capovolge la prospettiva della distruzione credendo nella capacità del suo film di costruire: «Vorrei che riuscisse a mostrare come l’istruzione di Malala le abbia dato la forza di provare a cambiare il mondo – conclude –. Grazie alla sua istruzione Malala ha trovato la propria voce e ha poi preso la decisione di usarla per quello in cui crede. Se qualcun altro venisse ispirato a parlare a gran voce vedendo questo film, sarebbe qualcosa di speciale». Nel frattempo, le immagini sullo schermo sono quelle dei tre milioni di bambini in Siria che hanno smesso di andare a scuola.