sabato 6 giugno 2020
Marco Bracconi riflette nel suo e–book sugli effetti del lockdown: «La Rete può funzionare come supplenza, ma non deve essere considerata un sistema incontestabile»
Lezione a casa tramite internet a Genova durante la quarantena

Lezione a casa tramite internet a Genova durante la quarantena - Ansa/Luca Zennaro

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Marco Bracconi è arrivato a Milano un anno fa, giusto in tempo per assistere allo sconvolgimento prodotto dalla pandemia nella città che non voleva fermarsi mai. Da qualche settimana anche lui ha ripreso a uscire per strada. «Mi sono reso conto che nelle persone c’è un forte desiderio di socialità, di vicinanza fisica – dice –. Per me è la conferma che i giochi non sono ancora fatti: non tutto si è smaterializzato, a differenza di quanto si è portati a pensare. La mutazione non ha ancora vinto». La mutazione è, appunto, il titolo del pamphlet che Bracconi ha appena pubblicato in e–book presso Bollati Boringhieri (pagine 84, euro 3,99). «Sì, è una contraddizione, me ne rendo conto – ammette l’autore, da vent’anni giornalista di “Repubblica” –. Mi servo di un libro elettronico per mettere in discussione l’ineluttabilità del digitale. Ma il punto è proprio questo: la Rete, in tutte le sue articolazioni, può avere una funzione di supplenza, ma non deve essere considerata un sistema incontestabile. Il sistema, anzi: unico e senza alternative».

È un effetto collaterale del coronavirus?

In questo come in altri ambiti, il Covid–19 non ha fatto altro che rendere evidente un processo già in atto e che ha ricadute molto preoccupanti in ambito sociale e politico. Lo smart working e l’e– learning, nella fattispecie, hanno avuto un ruolo importante nell’emergenza, ma non possono essere considerati come valori assoluti.

Perché?

Perché lo studio, come il lavoro, non tollerano l’eccesso di astrazione, nel quale si nasconde sempre un’insidia totalitaria. Nello smart working, per esempio, si assiste a un irrigidimento delle strutture gerarchiche che si avvantaggia del mancato contatto tra le persone. Quando ci si trova faccia a faccia, il lin- guaggio del corpo può contrastare o almeno stemperare un eccesso di autoritarismo. Se viene a mancare questa comunicazione immediata, invece, non resta altro che rispettare la consegna, obbedire, svolgere una funzione.

I corpi come soggetti di resistenza, dunque?

Da non credente, sono rimasto molto colpito dai gesti compiuti da papa Francesco nei momenti più drammatici della quarantena. Il suo pellegrinaggio solitario per le strade di Roma, la preghiera nel deserto di piazza San Pietro: prima ancora delle parole, è stata l’impronta lasciata dal corpo del Pontefice a ricordarci che la realtà, là fuori, esisteva ancora, non era stata sostituita dal flusso di informazioni del digitale.

Che però hanno svolto un compito importante, non crede?

Certo, oggi più che mai è fondamentale che attraverso la rete si possano condividere i dati della cura e della ricerca. Ma questo non può in alcun modo comportare la rinuncia alla dimensione corporea, che tanta retorica corrente esalta senza contraddittorio. Anche in questo senso, trovo molto significativo che le obiezioni più consistenti vengano proprio dal mondo cattolico e non dalla cultura laica, che pare aver rinunciato all’esercizio del pensiero critico. Non si dubita più, si accetta il presente e, quel che è peggio, ci si rassegna al fatto che il presente debba prendere il posto del futuro.

Non la seguo.

Prenda una frase come “nulla sarà più come prima”. Ce la siamo ripetuta senza sosta, fin dai primi giorni della quarantena, come se quello che stava accadendo in quel frangente dovesse ripetersi all’infinito. I nonni non abbracceranno più i nipoti, si diceva. Questa, in effetti, è la logica della rete, che non avendo inizio né fine non contempla l’esistenza della relazione tra causa ed effetto. Internet è un archivio, ma non ha memoria: l’archivio è un meccanismo che si alimenta per accumulo, la memoria è un processo che si compie nel tempo e che, di conseguenza, ha come orizzonte il futuro.

Come mai tanta insistenza sul tempo?

Sono persuaso che, fin dal principio, sia stato il fattore determinante. Non ho mai trovato convincente l’immagine della guerra alla pandemia ed è per questo che, quando ho cominciato a scrivere il libro, ho deciso di rivolgermi direttamente al virus, dandogli del tu. Mi pareva che fosse il modo migliore per capire se, per caso, questo avversario non avesse qualcosa da insegnarci. Ed è proprio sul tempo che, francamente, l’ho trovato imbattibile.

In che senso?

Il Covid–19 è un virus paziente. Non come la Sars, che si manifestava con violenza in meno di ventiquattr’ore. Questa volta l’incubazione dura per settimane, ci sono pazienti che restano positivi per mesi. È una situazione di complessità inedita, che ci obbliga a rivedere il nostro modello di comunicazione, sempre più semplificato e affrettato.

Si riferisce al giornalismo?

Al contributo che il giornalismo può dare alla democrazia, in particolare. Non si tratta di combattere battaglie anacronistiche. Una parte consistente dell’informazione si muove in Rete, secondo dinamiche che negli ultimi decenni si sono sempre più intrecciate con lo stile dei social network. Ma proprio per questo occorre preservare lo spazio di riflessione che i quotidiani e i settimanali possono garantire.

È una questione di libertà?

Di libertà e non di privacy. Una delle insidie della nostra epoca sta in questo baratto tra sfera privata e sfera pubblica: accada quel che accada nel mondo, purché in casa mia sia salvaguardato un minimo di riservatezza personale. Il dibattito sulla app Immuni, in fondo, si limita a questo. Ma non può bastare.

Che cosa servirebbe?

Il ritorno ai luoghi reali di confronto. E per reali intendo fisici, frequentati dalle persone. Non è la rete a dover cedere il potere che le è stato attributo. Siamo noi, piuttosto, che dobbiamo riconquistare e rafforzare il ruolo degli spazi pubblici. Internet è un soggetto politico, ormai lo sappiamo. Adesso la politica è chiamata a trattarlo come tale, altrimenti il web finirà per divorare la democrazia.

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