sabato 1 maggio 2021
Il numero di Luoghi dell'Infinito di maggio è dedicato alle riaperture dei luoghi della cultura: una necessità come l'aria per i polmoni. Gli editoriali di Ivano Dionigi e Emilio Isgrò
La riapertura della galleria d’arte Camera centro italiano per la fotografa a Torino

La riapertura della galleria d’arte Camera centro italiano per la fotografa a Torino - Ansa/Alessandro Di Marco

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Si intitola “Il respiro della cultura”, con un chiaro riferimento allo stallo imposto alle arti durante la pandemia, lo speciale del numero 261 di “Luoghi dell’Infinito”, in edicola con “Avvenire” da domani e di cui anticipiamo qui gli editoriali di Ivano Dionigi, presidente della Pontificia accademia di latinità e già rettore dell’Alma Mater di Bologna, ed Emilio Isgrò, artista e scrittore.

​«È il tempo di restituire il tempo ai nostri ragazzi»

di Ivano Dionigi

La galleria Camera a Torino / Ansa/Alessandro Di Marco Fuoriuscita dalla pandemia, resilienza, transizione ecologica, competenze digitali, tecnologiche e ambientali. Tutti appassionatamente proseliti, anche se non altrettanto consapevoli, di questo lessico. Ma chi è il soggetto, l’interprete, il destinatario, di tali processi e scenari? Ha senso parlare di futuro senza mettere al centro i giovani e la loro formazione? E questa educazione dovrà essere “informata” o “formata”, settoriale o integrale, finalizzata o libera? Pensiamo davvero che un incremento della tecnica garantisca nel lungo periodo l’effettiva ripresa economica e assicuri una vera classe dirigente? Vogliamo avere, come ammoniva Montaigne, teste ben piene o teste ben fatte? E finalità della scuola è formare utili impiegati oppure, come ricordava Nietzsche, cittadini a pieno titolo? Resto convinto che qualità e destino di un Paese dipendano dalla sua scuola, la prima vittima della pandemia: l’abbiamo messa in coda all’agenda politica, anteponendole perfino le messe in piega, e abbiamo ridotto i nostri ragazzi a spettatori e animali domestici, non considerati soggetti consapevoli e protagonisti della tragedia in atto. Abbiamo tolto loro il respiro. A chi, se non a loro, affidare il passaggio da questa apocalisse alla genesi? I tempi avversi impongono responsabilità e offrono anche opportunità. La prima riflessione riguarda gli adulti. Noi professori (dal latino profiteri, “professare”) siamo all’altezza del nostro nome? A noi spetta professare l’etica della competenza, praticare risposte intellettualmente oneste, pretendere il massimo impegno dai ragazzi al riparo da ogni pedagogia facilitatrice, e soprattutto essere generosi e credibili. Mi chiedo quale sia stato in questo anno il nostro contributo di universitari, che godiamo di indubbi privilegi, nei confronti delle scuole, che hanno scontato difficoltà di ogni tipo nella didattica a distanza e nei confronti dell’opinione pubblica disorientata e bisognosa di speranza. Tutti afoni; eppure, come ha ricordato il Nobel per la Chimica Richard Ernst, a differenza dei capitani di industria, condizionati da bilanci e profitti, e a differenza dei politici, ricattati dai voti e dalla mancanza di un mestiere, noi professori possiamo proclamare il vero e il giusto senza mettere a repentaglio la nostra posizione. Mi chiedo anche dove siano finiti gli intellettuali, figure che mettano il loro sapere a confronto col potere e a frutto del bene comune, che abbiano nel sangue il destino dei giovani. Spariti, sostituiti da intrattenitori, portavoce, comunicatori i quali si avvicendano da un canale televisivo all’altro per presentare a turno il loro ultimo instant book. Blaterano, direbbe sant’Agostino, ma sono muti. Eppure, proprio ai nostri giorni, c’è un grande bisogno di incontro, una grande occasione di saldatura tra adulti e giovani. La mia generazione voleva “uccidere” il padre, il padrone, il maestro; loro, i nostri ragazzi, li cercano, e non li trovano. Tutti pronti a dire loro cosa devono o non devono fare, ma chi se ne prende cura, chi li ascolta, chi li promuove? Spesso non trovano interlocutori nella famiglia, nella Chiesa, né tanto meno nei partiti, tutte realtà in affanno. E così, di fronte alla nostra indifferenza e al nostro cinismo, fanno parte per loro stessi, in una lenta secessione, interiore ed esteriore. Il nostro male è quello che Eliot chiamava “il provincialismo di tempo”, il credere che il mondo sia proprietà esclusiva degli adulti e dei vivi, una proprietà di cui i morti non possiedono azioni. Nei confronti di questi giovani abbiamo commesso un delitto, abbiamo staccato loro la spina della storia, e questa signoria del presente è per loro un gas nervino: “l’inferno dell’uguale”, lo ha chiamato Byungchul Han. Con i nostri giovani dobbiamo comunicare, vale a dire condividere (cum) la nostra funzione ( munus), cioè il nostro ruolo, la nostra vita. Sono loro che fanno l’unità, la bellezza e la speranza del nostro Paese provvidenzialmente ricco di talenti e maledettamente incurante di essi. Il mondo sarà migliore il giorno in cui non diremo più di un ragazzo o di una ragazza che è tutto suo padre, tutta sua madre, ma di un genitore diremo che è tutto suo figlio, tutto sua figlia.


«Oggi più che mai servono artisti liberi»

di Emiliio Isgrò

In queste ore di solitudine obbligata – solitudine dell’arte, solitudine del mondo – è singolare che gli artisti non ne approfittino per porre una questione non meno seria della riapertura dei musei in piena pandemia. Una questione traducibile in una domanda: se sia lecito affidare la cura della malattia a coloro che la malattia l’hanno inseminata e fomentata. Non mi riferisco alla malattia generale del mondo. Penso alla ma-lattia particolare dell’arte: che è quella di vivere ancora, dopo un secolo e mezzo di avanguardie, su una eredità ideologica che per strada ha perduto ogni mordente per trasformarsi in puro consumo. Dimenticando che è proprio su questo terreno che si apre uno spazio straordinario alla creatività italiana, se si considera che i nostri artisti (scrittori, registi, pittori) non sono meno bravi dei cuochi e degli stilisti che tanto hanno contribuito al consolidamento della nostra immagine nel mondo. Se si riconosce che questa nella quale siamo immersi è una guerra, proprio noi italiani non possiamo dimenticare che sulle ceneri della Seconda guerra mondiale il nostro Paese, per fare un esempio, riconquistò la simpatia internazionale grazie a un cinema, come quello di De Sica o di Rossellini, capace di creare con pochi mezzi, e praticamente senza attori, o con attori “presi dalla strada”, un potente contraltare emotivo al ben più sfarzoso cinema hollywoodiano. Perché è sempre dalle ceneri che si rinasce, e questo gli italiani lo sanno per lunga esperienza. Gli italiani sanno che la loro grandezza è sempre la precarietà a costruirla, e per questo hanno bisogno degli artisti e dei poeti, specialisti dell’instabilità umana, non meno che dei filosofi. Pena la perdita di quella creatività estetica, che è parte integrante della creatività sociale e civile di un Paese. Oggi, forse, è opportuna la classica distinzione tra intellettuale e poeta, dove per poeta si intende non tanto il “fanciullino” pascoliano quanto quel tipo di intellettuale chia- mato“artista” che quando la pura riflessione non basta, o porta al vuoto, se ne libera per cercare le risposte in quel sottofondo pascaliano del cuore che gli consente di rappresentare il mondo nella sua nudità più cruda. Non voglio ridurre tutto l’universo a misura d’arte, come oggi pretende la retorica di chi parla di “bellezza” in astratto, ma solo ricordare che l’arte è un’attività maledettamente concreta, e là dove essa è priva di coraggio è la società nel suo insieme che perde colpi. Come dice Goethe nel Faust: “Troppo vecchio io sono per giocare soltanto, troppo giovane per non avere desiderio”; ed è chiaro che nessuno, oggi, può permettersi di giocare solo per giocare. È un momento decisivo di passaggio: purché, osservando i limiti degli altri – gli ultimi trent’anni dell’arte finanziarizzata sono stati ripetitivi e noiosi –, impariamo a riconoscere anche il nostro limite più vistoso, riassumibile in poche parole: timore del rischio, paura di conoscere il mondo. Il che è autolesionistico in un tempo in cui l’arte contemporanea (diventata un potentissimo strumento mediatico) contribuisce non poco all’immagine anche economica d’un paese non meno che l’economia in senso stretto. Per questo può essere pericoloso puntare tutte le carte sul nostro glorioso passato. Preserviamo pure gli Uffizi e il Colosseo. Ci mancherebbe. Ma senza dimenticare che fuori dell’uscio ci sono tanti giovani innovatori esposti all’indifferenza. Non si tratta di professare un rifiuto fuori tempo del denaro, perché anche l’artista ne ha bisogno per realizzare le sue opere, spesso affidate a tecnologie molto costose. Ma quando il denaro diventa un’istanza ideologica, anzi dogmatica, è utile rammentare la disputa che Elio Vittorini ebbe con Palmiro Togliatti che lo invitava a ricalcare servilmente la linea politica del vecchio Partito comunista. Vittorini, con dignità, rispose che all’artista, al poeta, non si può chiedere di suonare il piffero per la rivoluzione. A maggior ragione, oggi non gli si può chiedere di suonare il piffero per la finanza.


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