Le colline del Chianti - Unsplash
In occasione dell'uscita del numero di luglio di Luoghi dell'Infinito, dedicato all'"Italia d'autore", pubblichiamo il testo di Alessandro Zaccuri.
L’Italia, sosteneva Metternich, non è altro che un’espressione geografica. Affermazione discutibile, che da quasi due secoli cerchiamo tenacemente di smentire con risultati alterni e non sempre lusinghieri. In compenso, non c’è dubbio che il Bel Paese sia stato in primo luogo un’espressione letteraria. Per via della solita questione della lingua poetica che precede l’unità politica, d’accordo. Ma non va dimenticato che, più modestamente, Il Bel Paese è il titolo del libro che l’abate Antonio Stoppani pubblica nel 1876, in un clima fortemente segnato dalla volontà di dare ulteriore concretezza al disegno risorgimentale. Con le sue Conversazioni sulle bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica d’Italia (così il sottotitolo), Stoppani accompagna il lettore in una scorribanda scientifico-letteraria che va dai ghiacciai delle Dolomiti ai crateri di Etna e Vesuvio, risale alle cascate del Toce per poi discendere nuovamente verso le cave di marmo nei dintorni di Carrara, e trova perfino modo di soffermarsi sui giacimenti di petrolio nostrani.
Esponente di spicco del cattolicesimo liberale e divulgatore affabile, Stoppani è inoltre studioso e biografo di Alessandro Manzoni, lo scrittore che con la sua opera prosegue nell’impresa – avviata da Dante – di fare l’italiano, in attesa che sia prima o poi fatta anche l’Italia. Nei Promessi Sposi, così come in Adelchi, il paesaggio è molto più di uno sfondo: la descrizione del lago di Como nel romanzo e il viaggio del diacono Martino nella tragedia sono semmai visioni sentimentali e addirittura profetiche di una nazione possibile, sono il sogno di un Paese che non è ancora stabilito nei suoi confini e intanto è già, da sempre, il Bel Paese che sarà successivamente esplorato da Stoppani.
I Promessi Sposi entrano rapidamente nei programmi scolastici del Regno, il libro dell’abate si assesta come lettura tra le più popolari dell’epoca insieme con Le avventure di Pinocchio e Cuore. E se nel capolavoro di Collodi il paesaggio è elemento talmente diffuso da sottrarsi alla necessità di essere esplicitato (tutto accade nella continuità indistinta tra il borgo e la campagna, tra la bottega di Geppetto e il bosco nel quale il Gatto e la Volpe tendono le loro insidie), Edmondo De Amicis approfitta dell’espediente dei “racconti mensili” per passare in rassegna buona parte delle regioni d’Italia, mostrando una non casuale predilezione nei confronti di quelle in qualche modo implicate nelle vicende di Casa Savoia. Un modo, anche questo, per ribadire la varietà e la consistenza di un Paese bello, bellissimo, ma soprattutto valoroso fino al sacrificio, e patriottico fino all’esaltazione.
Prendere l’unità nazionale come punto di riferimento non significa trascurare quello che nella nostra letteratura è avvenuto in precedenza, preparando e favorendo il processo politico giunto a maturazione nell’Ottocento. Contemplazione del paesaggio e indignazione civile sono istanze che nei secoli entrano spesso in frizione l’una con l’altra, come accade già nella Commedia, o a maggior ragione nei versi e nelle prose di Giacomo Leopardi, fustigatore implacabile dei deludenti «costumi» nazionali e nello stesso tempo cantore ammirato della distesa di colline oltre le quali si intuisce l’immensità del mare. Sì, quello dell’Infinito è davvero il paesaggio italiano nella sua dolorosa compiutezza, incantevole e ferito, risolto nel perfetto andamento delle forme, eppure insidiato alla radice dalla consapevolezza della morte.
L’Italia, in fondo, si riconosce da questo: dall’impossibilità di racchiudere ciò che è complesso in una formulazione univoca e rassicurante. Il Bel Paese non è l’Arcadia, vagheggiamento più letterario che poetico di una terra al riparo dalla contraddizione, nella quale si è ammessi per cooptazione accademica e dalla quale, potendo, non ci si allontanerebbe mai più. Per quanto comprensibile nelle sue premesse di recupero della classicità, questo atteggiamento estetizzante ha molto limitato in passato – e talvolta ancora limita – le ambizioni della nostra letteratura. Nella quale la presenza di ruscelli gorgoglianti non impedisce che le acque si intorbidiscano per il sangue sparso nelle guerre tra i Comuni, così come la solenne imponenza della montagna può ben nascondere il cuore oscuro della cava nella quale si inoltra l’indifeso Rosso Malpelo di Giovanni Verga.
Non per questo, il paesaggio italiano si accontenta di essere ridotto al dissesto di una terra desolata. Perfino nell’altisonante denuncia pronunciata da Roberto Saviano in Gomorra, la vastità del degrado non è comprensibile se non attraverso la relazione con la perduta felicità di un territorio attualmente insidiato dai fuochi dell’inquinamento. Va forse ricercato qui il motivo per il quale Camillo Sbarbaro, poeta di mitezza altrimenti proverbiale, non tollera l’idea che, durante un viaggio in treno, si possa fare altro che non sia guardare dal finestrino. Nessun libro da leggere, nessuna parola da scrivere, tanto meno nessuna immagine da sbirciare su uno smartphone riesce a competere con la sorpresa di un paesaggio che magari ci si illude di conoscere a memoria, ma che all’osservatore attento rivela sempre dettagli imprevedibili e fatali.
Dell’Italia non si fa mai esperienza in via definitiva, il Bel Paese non si concede mai per intero. Meglio di tutti lo comprendono forse gli scrittori stranieri che, a partire dal Settecento, calano dalle nostre parti per il rituale del Grand Tour. Da Goethe ad Axel Munthe, giusto per indicare i labili estremi di una tradizione che continua a espandersi nel tempo e nello spazio, sotto il sole della Toscana o sulle rive del lago di Garda. Non c’è un’Italia sola, e questo è il bello del Bel Paese. Il Salento non è la Liguria, né un’isola vale un’altra. Sbarcato in Sardegna, il siciliano Elio Vittorini scopre una terra che, proprio per le sue peculiarità, gli restituisce lo spaesamento dell’infanzia, e una sensazione simile la prova Carlo Levi, che davanti al profilo di Matera sente risvegliarsi la nostalgia per Gerusalemme.
Il paesaggio italiano è arcaico nella sua modernità, nella sua convivenza inimitabile di meraviglia naturale e prodigio dell’arte. Un’arte piccola, a volte, l’artigianato domestico di un pezzo di terreno strappato all’asperità della montagna o di un villaggio abbarbicato su un’altura che, per qualche ragione misteriosa, sembrava patire la mancanza di quella costruzione.
Il paese, dunque. Lo Strapaese che, grosso modo un secolo fa, si contrapponeva alla Stracittà, in una di quelle contese – oggi incruente, almeno questo – nelle quali noialtri italiani siamo specialisti. L’impeto del campanilismo non tiene conto delle proporzioni del campanile, una frazione può vantare lo stesso orgoglio di una capitale e di capitali, ammettiamolo, ne avremmo già fin troppe.
In definitiva, è per questo che l’Italia si lascia raccontare solo dalla letteratura e si lascia elogiare solo dalla poesia. È irrequieto e indomito, il nostro Bel Paese. Si consegna a chi vuole, senza fare distinzioni tra il dotto e l’idiota. La luna che si accende sotto lo sguardo incredulo di Ciàula, il povero caruso abbrutito protagonista della novella di Luigi Pirandello, è la stessa che Leopardi, ancora lui, dipinge con parole attinte al magistero degli antichi. Si potrebbe obiettare che la luna è luna dappertutto, va bene. Ma per vederla splendere così è in Italia che bisogna venire: nel Bel Paese dove la vita, nonostante tutto, dice sempre di sì a sé stessa.