Leoncillo, «Taglio rosso» (1963, particolare)
Non fosse che per la svolta dell’ultimo decennio di una vita chiusasi prematura, spezzata a soli 53 anni, si potrebbe concordare con Roberto Longhi quando in una lettera confessò di aver insinuato un dubbio radicale in Leoncillo, lo scultore di cui presentò nel 1954 la prima personale con 22 sculture alla Galleria “Il Fiore” di Firenze diretta da Corrado Del Conte, vale a dire che la sua scultura «non è (di necessità artistica) più tridimensionale di quanto la pittura» e a dare all’affermazione la fondatezza di una fonte autorevole, il critico chiamò in causa nientedimeno Galileo Galilei, uno che «se ne intendeva», citandolo così: «il rilievo che la scultura dimostra, non lo dimostra come scultura ma come pittura». Ma qui i conti son fatti senza tener conto dell’oste Leoncillo Leonardi, che quattro anni dopo imprime alla sua scultura uno slancio che, a tutti gli effetti e per dirla con Bergson, è un élan vital, qualcosa che segna una discontinuità nel tempo, quella di un gesto libero, umano, radicalmente esistenziale, perché il tempo è qualcosa di sensato solamente se lo si pone in relazione con la capacità dell’uomo di scardinarne la morsa cronologica con accelerazioni improvvise, scarti, diversioni, rallentamenti e stasi non contemplate dalla fisica o dall’orologio che governa il cosmo.
Non pensavo, recandomi alla Galleria dello Scudo di Verona, di vedere una mostra così evocativa, imponente e ben scelta fra le opere di Leoncillo Leonardi, per tutti ormai Leoncillo (come di certi grandi che hanno raggiunto una piena instaurazione della fama individuale nella nostra identità storica e nazionale si cita solo il nome); mostra imponente per quanto di sole 16 opere, alcune di grandi dimensione, chiamate in scena per celebrare il mezzo secolo dalla morte dello scultore italiano di origini spoletine (fino al 17 marzo). E l’impulso dato dal curatore Enrico Mascelloni non poteva essere più giusto, laddove si limita a prendere in considerazione l’ultimo decennio dello scultore, senza costringere le opere esposte nella ricerca di rimandi e analogie con le precedenti, sulle quali il solito Longhi aveva speso la definizione di “barocchetto”, laddove Leonardo Sinisgalli a proposito di Fontana, che con Leoncillo ebbe forti consonanze, con un largo anticipo parlò di barocco.
Fu lo stesso Sinisgalli su “Domus”, nel 1940, ad accostare Leoncillo a un altro giovane geniale che attraversò l’Italia fascistizzata come una cometa che con la sua incandescenza sfornò in un decennio (fino al 1941, quando morì sul fronte albanese) una miriade di sculture e ceramiche policrome, accompagnandole con una incredibile quantità di disegni, dove il tema ricorrente era il bestiario – parlo del sardo Salvatore Fancello –, e in secondo luogo le realtà naturali e la magia mitica della sua terra. Scrivendo delle differenze fra i due “enfants terribles” (così li definisce), Sinisgalli notò che Fancello aveva «un senso plastico meno ossessivo di Leoncillo». Che equivale già a dare di Leoncillo una collocazione meno paradossale di quella che Longhi estrarrà dalle sue saccocce, riducendo gli incavi e le ferite impresse nella materia a «strappi tonali», in definitiva «a tracce di buona poesia». La poesia c’era, sicuramente, in Fancello, per esempio nel modo con cui “disegnava” le sue ceramiche e le sue formelle rialzate, i suoi animali e le sue figure da presepe, attribuendo alla materia un afflato lirico. Ma in Leoncillo, viceversa, pur scontando quel clima di picassismo che durò ben più di un decennio nel dopoguerra (forse ci vollero le due mostre di Milano e Roma del 1953-54 dedicate al grande catalano per accendere un dibattito risolutivo fra chi nel picassismo imperante vedeva una sorta di debolezza delle certezze che dovevano testimoniare nei nostri artisti una vocazione non solo individuale ma nazionale: se ne accorse anche Guttuso che cercò di mettere i puntini sulle i), si sente il tormento che accompagna uno spirito ribelle ma anche introverso.
Quelle presentate a Verona sono “opere ultime” in senso proprio, risposta drammatica alla crisi europea che in un balzo supera il picassismo di maniera, la destrutturazione postcubista di un’arte che vorrebbe tornare a farsi realistica e figurativa e al tempo stesso non può ignorare gli slanci “negativi” dell’informale che nascono da tragedie e ferite difficili da sanare a pochi anni dall’immane catastrofe bellica. È un dubbio che ancora si sente nel 1957 quando Leoncillo espone alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis, filtrando le ricerche dell’informale europeo. Ma comprese molto presto che seguendo quella strada forse non sarebbe diventato altro che un epigono dei francesi e dei tedeschi.
Di fronte a questa che può essere una regressione o una progressione finale verso la distruzione afasica della forma, Leoncillo opta per una scultura che sembra guardare al passato senza alcuna intenzione mimetica; pare, ecco, che la sua svolta plastica cerchi il corpo a corpo con la materia, come se il toro nella corrida più che da uccidere fosse da incantare e bloccare nell’impeto della sua foga animale e barbarica, mostrandone le ferite e le incisioni, le fessure e gli anfratti aperti da mani che operano per squartamento ma tenendo ancora insieme la forma completa di quella realtà che era e vuole continuare a esistere sia pure cambiata di segno. “Materia radicale” s’intitola la mostra, come a sottolineare l’esito conclusivo di una rivolta contro ciò che di sordo e ottuso si cela anche nelle nostre viscere, che materia sono anch’esse al servizio di appetiti e voluttà spesso mortali o, quand’è meglio, consegnate a furori e passioni che bruciano come il fuoco e lasciano sui nostri corpi grumi, croste, buchi e sottrazioni che testimoniano quanto il teatro esistenziale sia affamato della nostra carne.
Naturalmente fare di Leoncillo un “ultimo naturalista”, come poteva piacere a Francesco Arcangeli che attirò con la sua scrittura, in occasione della grande mostra postuma allestita a Spoleto da Giovanni Carandente nel 1969, l’attenzione del fratello dello scultore, è una tentazione critica che riaffiora ogni tanto, con sfumature o ricadute nel già detto. In realtà, osservando opere come San Sebastiano bianco (1960), oppure San Sebastiano I e II , alte quasi due metri, e lo straordinario Taglio rosso del 1963, che ha la forza di un torso eroico e la raffinatezza, sì barocca, di una figura che domina lo spazio con la sua splendida ed elegante fierezza senza occultare la sua fragilità di terra arsa dalla storia di un secolo breve ma cruciale come pochi altri, fino alla coppia di Amanti antichi del 1965, che riprende il tema classico delle urne funerarie etrusche e mediterranee. Queste sculture, che nelle opere-colonna mi ricordano la ricerca plastica di Wotruba sia pure nella materia dura e affatto diversa del bronzo o della pietra, testimoniano il presentimento della fine, di un'apocalisse interiore e mondana, che si rivela come un conatus, nella lotta conclusiva di Ercole michelangiolesco che Leoncillo sembra condurre con la materia, forse con l’ossessione di comprendere che nel non finito c’è già tutto e, al tempo stesso, nel finito non tutto è scritto per sempre. In definitiva, una ossessione religiosa.