Proprio ieri, lo “zar” Pietro Vierchowod ha compiuto 52 anni. Per l’anno che verrà ha deciso di «metterci la faccia», di scendere in campo sul serio, nella sua città, Como, per «fare della politica vera, ovvero: cercare di cambiare le cose nell’interesse di tutti». Per uno che dopo 25 anni da gladiatore in campo (562 partite in Serie A, meglio di lui solo Paolo Maldini, Gianluca Pagliuca e Dino Zoff), lo “stopperone” granitico, campione del mondo dell’82, e scudettato con la Samp di Vialli e Mancini, questa sarà la stagione «dell’impegno civico». Il prossimo obiettivo, non dichiarato, dello “zar”, figlio di Ivan, ex soldato dell’Armata Rossa fatto prigioniero in Ucraina nella seconda guerra mondiale, «poi dopo è rimasto a vivere nelle valli bergamasche», è la poltrona di primo cittadino di Como.
A che punto siamo del progetto “lo zar sindaco”?«Per ora sto cercando di mettere in piedi una squadra. Il calcio mi ha insegnato che si vince solo se si si crea un gruppo vero e all’interno di questo ognuno assolve al meglio al proprio ruolo. Cosa che nella società e nella politica attuale non riscontro. Ognuno gioca per se stesso e in difesa dei propri interessi personali».
Qualcuno l’ha già attaccato con gli stessi argomenti, come si difende?«Io non ho aziende, grazie al calcio ho messo da parte quanto è bastato per vivere bene, far laureare i miei due figli più grandi che vivono in Inghilterra. Ora ho la piccola di 15 anni che va ancora a scuola e questa scelta di metterci la faccia in politica nasce dall’esigenza di migliorare la nostra realtà, offrire una prospettiva a tutti, cominciando dalle nuove generazioni».
Ma sta messa così male la sua Como?«Quando sono arrivato 34 anni fa ero convinto che fosse la migliore città della Lombardia, il posto ideale dove vivere e lavorare, oggi non è più così. Sarebbe più facile dire, pazienza, mi trasferisco altrove, invece io sono convinto che le cose possono tornare come e meglio di prima, basta mettersi in testa che è ora di cambiare».
Questo pensiero “rivoluzionario” gli deriva dalla matrice russa paterna?«Mio padre mi ha insegnato l’umiltà e il sacrificio nel lavoro. Quando ho cominciato a giocare nel Como prendevo pochi soldi e per arrotondare dopo gli allenamenti lavoravo nell’officina del vicepresidente».
A vent’anni, ha debuttato nel Como, in Serie A, oggi i lariani faticano a risalire dalla Lega Pro.«Anche questa decadenza sportiva è il segno della crisi di una città. Per tornare in A serve una struttura solida e dei dirigenti adeguati alla categoria. L’alternativa è avere tanti soldi da investire, con il rischio di mettersi in mano a uno di questi facoltosi imprenditori che spesso di calcio non ne capiscono niente e pretendono di importi di tutto, formazione compresa».
Anche a lei quando allenava i presidenti imponevano la formazione?«Portai il Catania ai playoff in C1 e poi dissi arrivederci al signor Luciano Gaucci che voleva fare solo di testa sua. Stessa cosa mi è capitata alla Fiorentina (in C2) dove mi aveva chiamato Giovanni Galli (anche lui si era candidato a sindaco di Firenze, prese più voti di Matteo Renzi). In un mese mettemmo su una squadra con gli avanzi degli svincolati e il solo Di Livio come nome di richiamo, ma lì è stata la mancanza di feeling con la stampa a farmi fare le valigie, prima dell’arrivo dei Della Valle».
La sua ultima panchina è datata 2005, quella della Triestina.«Stessa situazione anche lì, con l’allora patron Tonellotto, un personaggio ambiguo, l’hanno appena arrestato. Io se fossi stato in Delio Rossi a Zamparini avrei detto: no grazie non torno al Palermo dopo che mi hai umiliato davanti a tutta l’Italia. Ma purtroppo credo che come me nel calcio di oggi la pensino in pochi. Nonostante diverse richieste, negli ultimi anni ho preferito fare il commentatore Rai per “Stadio Sprint”. Non sa quanti mali mi sono evitato...».
Il male peggiore del nostro “sistema” calcio?«Che al vertice del Palazzo da sempre ci sono le solite tre facce. Non credo che non siamo in grado di esprimere un Platini a capo della Federcalcio, il problema è che molti miei colleghi fanno fatica a mettersi in gioco, oppure gli torna più utile accomodarsi in poltrone di secondo piano, lasciando i troni a quei vecchi politici prestati allo sport».
Torniamo al Vierchowod titolato: nel ’96 a Roma ha alzato anche l’ultima Coppa dei Campioni vinta dalla Juve.«Più che l’ultima direi l’unica, perché la vittoria dei bianconeri con il Liverpool a Bruxelles (nel 1985) costò un bagno di sangue. Che strazio tutti quei nostri tifosi morti allo stadio Heysel...».
Unico fu anche lo scudetto della Samp, accadde esattamente vent’anni fa.«Forse potrà accadere ancora che un’altra Samp, tipo il Napoli di Mazzarri, vinca lo scudetto, ma che una squadra italiana per la prima volta partecipi alla Coppa dei Campioni e arrivi fino in finale (poi persa con il Barcellona), mi sembra irripetibile».
Lei vuole cambiare Como, ma nel calcio cosa c’è da modificare?«Bisogna rimettere i giovani al centro del progetto sportivo. Nessuno mi toglie dalla testa che si è esagerato con gli stranieri. In una rosa ne servono massimo 5 e di qualità. Basta con questo spreco di pseudotalenti che a volte non si sa neppure da dove arrivino. I club spesso li comprano solo per compiacere e fare gli interessi economici dei soliti procuratori».
Immagini il palco del suo primo comizio: un messaggio da mandare ai colleghi del calcio.«Di essere impegnati anche fuori dal campo. Pure quando si è all’apice del successo considerarsi parte attiva della società reale che è composta per lo più da categorie che ogni giorno devono timbrare il cartellino e rimboccarsi le maniche in fabbrica per portare a casa uno stipendio. E oggi quello non sempre basta per arrivare a fine mese. Il calciatore è un privilegiato, ma solo se sa apprezzare la sua fortuna e riesce a metterla al servizio della collettività».