Il reverendo George Foreman fabbrica griglie e padelle. In tivù le prende a pugni. Se resistono, ride con il faccione tondo da tegame, vuol dire che sono buone. Pare sia l’ex sportivo più ricco: 250 milioni di dollari l’anno.È anche sponsor degli Us Open di tennis. Il reverendo ha felicemente compiuto 64 anni. Se si volta appena indietro, ancora faceva a pugni. Ha dieci figli, cinque maschi: li ha chiamati tutti George. E ama saltare in corsa sui suoi cavalli. Sostiene che riuscirvi ancora, alla sua età, lo faccia sentire benissimo. L’esatto contrario di ciò che pensano i cavalli. Foreman si è ritirato dalla boxe nel 1997, tre anni prima a 45 suonati riconquistò il titolo mondiale. Nel libro dei record c’è ancora posto per lui: il più vecchio campione dei pesi massimi. Ma i record son fatti per essere battuti, e il reverendo, irriso dalla farfalla Alì nella notte di
The Rumble on the Jungle Kinshasa, 20 ottobre 1974), ne ha già visti sparire alcuni dalle pagine a lui dedicate. Era, in assoluto, il campione del mondo più anziano, ora non più. Bernard Hopkins, l’eterno Bernard, lo scorso 27 ottobre ha difeso con successo il suo titolo mondiale dei massimi leggeri. Una grande impresa per un quarantottenne. Bernard ha festeggiato sul ring indossando una maschera verde. Lo chiamano l’Alieno.Lo sport si spinge sempre più in là. Fin dove non si sa, ma non ha mai smesso di andare oltre. Nessuno ne sentirebbe il bisogno, se i primati da battere fossero solo quelli anagrafici. Bambini rampanti, e vecchietti sempre in tiro creano meraviglia, è vero, ma riempiono di ansia i nostri cuori, ed è difficile non avvertirli come anomalie della natura, se non proprio come fenomeni da baraccone. Se è da record, certo non risulta per questo meno sconcertante l’immagine di Yuri Pudyshev, allenatore-giocatore della Dinamo Brest, Serie A bielorussa, 56 anni portati neanche benissimo. Ma i mutandoni da calciatore non premiano chi non ha più l’età per portarli con disinvoltura, soprattutto quando scoprono, fra un tackle e l’altro, le generose Gibaud a sorreggere l’adipe da birraio. Stanley Mathews, l’ex primatista battuto, giocò la sua partita d’addio il 6 febbraio 1965, Stoke City contro Fulham. Aveva 50 anni e 5 giorni, e agli occhi di chi lo aveva visto cominciare, trent’anni prima, appariva solo un po’ più rigido. Aveva la maglia ben calzata nei pantaloncini, una corsa elegante, e dopo ogni colpo di testa si passava le mani sui capelli per rifare la riga. Altra classe.Ma c’è dell’altro. C’è che all’idea di uno sport sempre più vecchio, o privo di carta d’identità se preferite, dovremo forse abituarci. Non potremo più sorprenderci di nonno Christopher Horner, che vince la Vuelta a quasi 42 anni, né di uno Javier Zanetti che torna protagonista nel derby milanese a 40 anni e 4 mesi, e dopo un infortunio che sarebbe stato difficile da superare anche per un ventenne. A suggerirlo sono i fisioterapisti, gli uomini addetti alla manutenzione delle macchine umane che vogliamo in pista. Attenzione, il doping non c’entra. Non qui. Il doping non fa invecchiare meglio, fa esattamente il contrario. Siate sospettosi di un atleta che salta ai vertici dopo aver frequentato troppo a lungo i piani medio-bassi del suo sport, non quando resiste così a lungo da raggiungere l’età nella quale potrebbe fare da padre a oltre la metà degli atleti che affronta.Prendete il tennis. È la disciplina che meglio evidenzia, al momento, il punto di vista dei preparatori fisici. Una dozzina di anni fa, un’allegra e scalpitante nidiata di aitanti giovanotti stava per irrompere nel circuito. Si parlava di ricambio, di nuove speranze. I padroni del vapore, sempre un po’ eccessivi nei loro propositi pubblicitari, li chiamarono "the young gunners" e li disposero in bella fila in una pubblicità che li mostrava con l’espressione più crudele che potessero fare. Imberbi ma già killer. E certo nessuno poneva il problema dell’invecchiamento del circuito. Il pronostico più naturale, semmai, era che i giovani “pistoleri” avrebbero percorso fino in fondo la strada del successo, quei sei-sette anni utili a realizzare i loro progetti agonistici, ognuno per le sue capacità. Non è andata esattamente così. Gli anni sono diventati, otto, dieci. Sono ancora il presente. Altri giovani “pistoleri” non sono venuti a reclamare il posto. Nei primi cento tennisti della classifica mondiale, oggi, figurano appena tre Under 23. Non era mai successo. Il tennis è diventato uno sport vietato ai minori.L’elisir di lunga giovinezza, spiegano gli addetti ai lavori, sgorga dai nuovi sistemi di allenamento, sempre più personalizzati, tagliati a misura degli atleti. E dalla tecnologia, che aiuta ad avere un quadro clinico dell’atleta come prima non sarebbe stato possibile. «È una questione economica, innanzi tutto», spiega Riccardo Piatti, fino a ieri coach del francese Richard Gasquet, oggi vicino al canadese Milos Raonic, il giovane più forte dell’ultima nidiata. «I giocatori guadagnano bene, si allenano meglio, investono sui team e in questo modo prolungano le loro carriere.I più forti possono permettersi un vero staff, che va dal coach al manager, dal preparatore atletico all’accordatore, dalla segretaria all’ufficio stampa». Un percorso comune, questo, negli sport dove il confronto è fra singoli atleti. Nasce l’atleta-azienda. E il business impone di prolungare le carriere e restare sul mercato. Senza scadenza.