mercoledì 29 ottobre 2014
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Nessuno è un grande uomo per il proprio cameriere, come scriveva Hegel il quale, allorché vide Napoleone nel suo fulgore, lo esaltò come l’anima del mondo. Difficilmente il filosofo tedesco avrebbe trovato un momento in cui produrre una descrizione celebrativa del suo collega Friedrich Nietzsche. Senza bisogno del racconto carico d’invidia e risentimento di un domestico, avrebbe scoperto un uomo solo e malato, febbrilmente creativo e ansioso di riconoscimento. Che dalla gloria fu raggiunto troppo tardi, quando la morte con cui aveva intellettualmente flirtato a lungo già lo aveva rapito. Famoso e anche famigerato, l’autore di Ecce homo e il profeta della volontà di potenza è ancora uno spettro che, ben più del comunismo ormai, s’aggira non solo per l’Europa, ma per l’intero Pianeta. Anzi, di Spettri di Nietzsche, come si intitola l’opera che gli ha appena dedicato Maurizio Ferraris (Guanda, pp. 270, euro 18), ve ne sono molti. E tutti meritevoli di attenzione. Perché l’historia individuale è magistra e qualcosa, se si vuole, si può imparare. Il sottotitolo del volume lo esplicita chiaramente: Un’avventura umana e intellettuale che anticipa le catastrofi del Novecento. Ma ciò che restituisce il libro di Ferraris, in un rapsodico e dottissimo viaggio a cavaliere di tre secoli, è una genealogia del pensiero che scava, verrebbe da dire, nell’Umano, troppo umano del pensatore tedesco. Un’infanzia infelice in Turingia, con la morte del padre in giovane età, la presenza soffocante della madre e della sorella Elizabeth, l’educazione (forse) repressiva, la solitudine esistenziale e i primi fallimenti di una lunga serie. La sua musica è stroncata quale «stupro a Euterpe», come saranno stroncate in vita molte delle sue opere, addirittura spesso rifiutate dagli editori. Quando a Torino si spegne definitivamente la luce del suo intelletto e sprofonda nella demenza che l’accompagnerà per gli ultimi dieci anni, Nietzsche ha già gettato semi fecondissimi che germoglieranno con tempi diversi, a destra e a sinistra, con esiti spesso non felici. Lo cita Mussolini, Hitler e il Terzo Reich lo tengono come pensatore in sintonia con il delirio nazista. Non è una lettura forzata – come ha cercato di sostenere molta critica nietzscheana – ricostruisce Ferraris, da oltre 20 anni protagonista di una querelle storiografica sulle edizioni e sulle presunte manipolazioni postume della Volontà di potenza.  In quegli aforismi sta proprio il grumo di rivendicazione di superiorità che uno spirito alto non ha visto onorata, che chiede lotta e guerra totale, gerarchia e caste, per mettere ordine in un mondo che deve avere al suo vertice i filosofi dionisiaci, armati di martello per legiferare in sintonia con il carattere spietato dell’evoluzione naturale, priva di scopo e di senso. Ma Zarathustra, il profeta del nichilismo, ha conquistato anche molti intellettuali di sinistra. Il depresso e fallito che vuole farsi fondatore di una nuova religione che ribalti i valori del cristianesimo ha fatto balenare una rivoluzione del desiderio finalmente liberato, capace di conquistare e contaminare di sé, per insofferenza narcisistica, il ribellismo antiborghese, la protesta anti-paternalistica, il radicalismo che tutto vuole cambiare. C’era Nietzsche a Bologna, il 23 settembre 1977, alla famosa manifestazione contro la repressione, dice Ferraris. Ma il desiderio si è rivelato davvero rivoluzionario? O non si è tramutato in un sovrano invisibile, un seduttore dai mille volti, il dominio di moltissimi padroni?  D’altra parte, c’è pure il Nietzsche chiuso e disorientato nella sua stanza con un prosciutto speditogli da casa, che con il suo «non ci sono fatti ma solo interpretazioni» detta l’agenda al postmoderno, quello che credeva che un mondo senza verità fosse liberatorio, mentre un mondo privo di fondamenti è aperto solo alla volontà di potenza, alla costruzione di mondi da parte del più forte. Tanto che un esito paradossale può essere Karl Rove, il consigliere di G.W. Bush, che afferma: «Noi siamo l’impero e quando agiamo costruiamo la nostra realtà».  Voleva diventare famoso, ora sarebbe un blogger mitomane. Radiografando la biografia del filosofo e intessendola alla sua riflessione, in un ammaliante caleidoscopio di citazioni e di rimandi alla cultura del Novecento, Ferraris mette di fronte a un portato di forte impronta nicciana, che resta implicito, ma interroga e sembra destinato a sopravvivere più a lungo di altre suggestioni telluriche. Un’intuizione, un’opera, una corrente di pensiero possono non essere altro che il frutto di una delusione molto pragmatica, di un bisogno di rivalsa, di una mente disturbata? Di uno squilibrio tra neuromodulatori cerebrali, sosterrà qualcuno. Sarebbe bastato un po’ di Prozac per rendere Nietzsche un placido e felice filologo, confinato a Basilea e destinato a quell’oblio che egli stesso reclamava come necessario? Ma allora anche il contagio delle idee è soltanto il risultato di qualche situazione contingente, di qualche provvisoria e casuale sensibilità, di temperamenti che la natura ha distribuito con la sua cieca lotteria? Di qui un po’ di 'superuomini' ipnotizzati dal fascino della competizione ('sensation seekers', li chiama la psichiatria), di là un po’ di relativisti, soggiogati dalla compulsione a interpretare la realtà, più qualche monista fissato su una singola credenza... Un interrogativo per molti ancora più inquietante degli altri spettri di Nietzsche.
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