giovedì 3 ottobre 2024
Le norme “algoretiche” di comportamento imposte all’IA funzionerebbero come dissuasori del traffico, ma per controllare un sistema così eterogeneo e vasto non sono la soluzione
L'etica degli algoritmi per una tecnologia morale: chimera o possibilità?

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Algoretica. Parto linguistico dal dubbio gusto estetico che ha assunto la veste taumaturgica di un farmaco salvavita per tanti dibattiti sull’intelligenza artificiale che contrappongono alle doti sovrumane del presunto rivale tecnologico un pattern di contenuti talmente medio che quando finiscono c’è da chiedersi cosa sia stato detto. Il termine composto ha il suono sgradevole di una chimera grammaticale vagamente grottesca, ma non è questo il problema vero. Il suo difetto principale è che algoretica fa immaginare una dimensione che nella realtà dei fatti non esiste, esattamente come il suo oggetto di indagine, l’intelligenza artificiale per come ci viene annunciata dai profeti del mercato. Possiamo dare credito a un’etica dell’algoritmo solo considerando, e in maniera piuttosto generica, l’etimologia della parola quando definisce un costume, un comportamento. L’algoritmo, come ogni altro fenomeno che affiora alla realtà, ha un suo comportamento, anche se sarebbe più corretto darne conto come catena cinetica di eventi matematici più o meno eleganti, più o meno capaci di ridisegnare la topografia vettoriale delle cose. Con il senso e la morale, intesi come li intendiamo correntemente, ha veramente poco a che fare. Utilizzando il termine algoretica come possibile panacea di tutti i mali si rischia di dislocare le responsabilità connesse all’uso delle IA attribuendole alla tecnologia, che, è banale dirlo, non ha polarizzazione morale di sorta. Aggiungo a latere che la parola etica racchiude un complesso di significati estremamente controverso, giustificazione amata dagli ayatollah di turno per impiccare la gente come pallet di laterizi assicurandosi che la morte avvenga per soffocamento lento. Torniamo al digitale. Stabilire delle norme di comportamento dovrebbe funzionare, nell’intenzione di chi ci crede, come dissuasore del traffico, quell’area è isola pedonale, quell’altra accessibile solo alle biciclette e così via. Più di un presupposto però non torna. Il digitale, che prenda la forma infiltrativa dell’IA o del software di cui non è altro che un’espansione dinamica, deve essere normato in qualche modo, con umiltà e costanza ma soprattutto con coraggio perché la forza del mercato è inarrestabile e così quella della sperimentazione, ovunque essa sia diretta. Per come la vedo io, attualmente l’algoretica – posto che sia un concetto giusto – è una forma ossequiosa di blando dissenso sostanzialmente insignificante nei confronti di chi ha in mano la partita. C’è un punto fondamentale che non mi sembra chiaro a molti. La forza infiltrativa del digitale in forma IA è direttamente proporzionale al progressivo sminuzzamento del linguaggio e delle direttive software che permettono classificazioni di dati sempre più chirurgiche. Il potere che ne deriva, generare conseguenze molteplici, eterogenee e perfino opposte, si trasferisce dalle vecchie proposizioni macroscopiche (che si suppone più facili da controllare) a porzioni sempre più micro di linguaggio. Anche ipotizzando, ed è pura immaginazione, di poter gestire tutti gli algoritmi con regole sartoriali cucite per settore, da chi poi sarebbe tutto da vedere, non si otterrebbe nulla di realmente stabile e affidabile nella realtà, perché la loro possibile costante taratura in sottotraccia presenta una tale infinità di parametri modificabili da risultare incontrollabili. La rivoluzione, il rischio, il disastro e la risorsa non sono più identificabili solo con la versione globale dell’algoritmo ma con livelli analitici di parziale riscrittura senza precedenti. Oggi è chiaro, e forse è solo la rivelazione di uno status del reale che ci sfuggiva perché fondamentalmente ingestibile, ogni singolo snippet, umile porzione micro freeware di un linguaggio parcellizzato in polveri talmente sottili da non poter essere nemmeno quantificate, ogni singola riga di comando, ogni sua porzione è lo scrigno possibile dove si cela l’intento ingestibile e orientato, che sfugge all’etica anche nel suo significato ampio di comportamento, perché fuori dal suo alveo di pertinenza, totalmente indipendente, alla mercé di qualunque modifica. Si dirà che sono sottigliezze tecnologiche incomprensibili. Proprio qui sta il dramma di far credere che esista la possibilità di una norma risolutiva, stuzzicando l’istinto irrefrenabile delle masse alla semplificazione. Chi pensa di poter comprendere le dinamiche dell’IA a seconda di come risponde nelle varie chat, o perché programma la sveglia, sbadiglia, ti blandisce con intercalari onomatopeici particolarmente azzeccati, crea immagini e video text related, è già caduto nella trappola, ne è parte integrante attiva e passiva allo stesso tempo, solo parzialmente ignara. Il digitale di oggi ha la dimensione del cavillo invisibile, sparso come un polline impalpabile sulle valanghe di software e algoritmi che utilizziamo. Un deep web della struttura linguistica, molto più profondo di quello criminale, così deep da rendere estremamente difficile se non impossibile prevederne le conseguenze. Figurarsi se in un mondo dove, come mera applicazione pratica, sono già stati implementati strumenti tali da rendere le transazioni di borsa una questione di istanti in cui si concentrano miliardi di transazioni perfettamente automatiche, questo digitale (e chi lo manovra) si preoccuperà di fantocci di cartapesta dal nome altisonante e improponibile come l’algoretica.

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