Gioventù multietnica durante una manifestazione a New York - Epa/Justin Lane
La costellazione dei migranti credenti ha cambiato in parte in questi anni il cattolicesimo d’Italia e, nelle varie analisi dei sociologi, sono emersi due volti, quello di un “cattolicesimo etnico”, fatto di comunità chiuse, e quello di una “multireligiosità cattolica”, che si esprime per esempio nelle feste e nelle celebrazioni. Ma è indubbio che nelle nostre parrocchie vi sono state contaminazioni benefiche nelle pratiche e nella spiritualità tra i fedeli italiani e gli immigrati. Il dato non irrilevante è che in Italia gli immigrati di religione cristiana superano i musulmani, contrariamente a quanto si pensa comunemente, e che il fattore religioso è sempre più centrale per l’integrazione. Ne è ben cosciente Stefano Allievi, ordinario di Sociologia all’università di Padova, uno dei massimi esperti del fenomeno dell’immigrazione nel nostro Paese, che ora manda in libreria il saggio Torneremo a percorrere le strade del mondo (Utet, pagine 216, euro 14,00).
Tutto il volume è segnato da un umanesimo profondo, da un animus cristiano che permea la sua disamina dei movimenti continui che hanno caratterizzato uomini e donne di ogni tempo. Come Allievi scrive nelle conclusioni, «le culture si trasformano». Basti pensare allo straordinario incrocio di civiltà che portò alla nascita dell’Europa, con la fusione fra cultura ebraica e greca realizzata dal cristianesimo. «È il paradosso – prosegue Allievi – che ci consegnano le nostre religioni, protestanti e cattolica, europee: qui, nei secoli, con il passare del tempo e l’evolversi delle società, sono cambiate». E oggi sono trasformate da quelle comunità di «immigrati che vengono dai posti dove eravamo andati noi come missionari (i cattolici filippini, i metodisti latinoamericani, i battisti africani)».
Tutto semplice allora nel meccanismo dell’integrazione? Niente affatto. Allievi sa benissimo che spesso, quando si incontrano i membri della stessa confessione ma di origine diversa, può scattare un conflitto. E non è un caso che egli stesso abbia scelto di insegnare conflitti culturali. È il paradosso dell’integrazione, come sostiene un suo collega docente a Münster, Aladin El-Mafaalani, che invita a guardare alla differenza fra aspettative e realtà: «Non è che l’integrazione non è riuscita, è che è riuscita così bene che ha aumentato la conflittualità, perché non produce uno stile di vita più omogeneo, ma al contrario uno più eterogeneo, con maggiori possibilità di scelte anche dissonanti, se del caso anche maggiore competizione per le risorse. La società aperta genera conflitti, non li sopisce, semmai ci aiuta a trovare i modi di risolverli in maniera non distruttiva per la società stessa. In questa accezione il conflitto è l’unico modo per evitare la guerra».
Così, anche quando Allievi illustra come a suo avviso è possibile governare il flusso di immigrazione nel nostro Paese, non lo fa mai in termini irenici, sapendo bene che la destabilizzazione che essa comporta è inevitabile e che non esistono risposte semplici a problemi così complessi. Ciò non toglie che si debba e si possa fare meglio rispetto alle politiche realizzate in questi decenni. Partendo dal fatto che, una volta sconfitta la pandemia, la spinta al movimento delle persone riprenderà, come si evince dal titolo stesso del saggio. Ma veniamo alle proposte concrete che emergono: si tratta innanzitutto di favorire, visto che ne abbiamo bisogno per motivi demografici, l’immigrazione regolare fermando quella irregolare.
Vanno perciò riaperti i canali regolari di ingressi, anche in base alle esigenze del mercato del lavoro, con una seria programmazione dei flussi incentivando la cooperazione con i paesi di origine. Vanno poi perfezionati i meccanismi di inclusione degli immigrati e delle loro famiglie e i processi di conoscenza reciproca. E qui Allievi si dice favorevole al cosiddetto ius culturae, con l’accesso alla cittadinanza italiana per le nuove generazioni. Se va combattuto il laissez faire, non hanno senso però le ricette di chiusura totale. Ciò non vuol dire che non bisogna combattere l’immigrazione clandestina (anche se il reato a essa connesso va abolito perché ritenuto ingiusto e controproducente): chi è entrato irregolarmente e non ha diritto di restare deve poter essere rimpatriato.
Così come vanno avversate le mafie transnazionali e contrastati i trafficanti di persone. «La domanda di sicurezza è sacrosanta », aggiunge il sociologo che precisa: «Le capacità più necessarie al XXI secolo sono e saranno la creatività, il pensiero critico, la capacità di risolvere problemi, quella di decidere e quella di imparare dai propri errori. Il modo migliore per farlo sta nella capacità di comunicazione e di collaborazione reciproca».
E occorre una struttura ad hoc per la gestione dell’immigrazione, un’Agenzia italiana autonoma, non un’appendice del ministero degli Interni.
Un dato preoccupante emerge continuamente nel volume: l’enorme calo demografico che investe tutta l’Europa e l’Italia in primis. Sono sempre meno i bambini che nascono e i giovani sotto i 35 anni sono il 33,8 per cento. Oggi abbiamo 3 lavoratori attivi ogni 2 pensionati, nel 2045 la proporzione sarà di 1 a 1, se non intervengono mutamenti nelle politiche di sostegno alla famiglia. Addirittura, nell’anno del Covid i morti sono stati il doppio dei nati (800mila contro 400mila).
Se l’Europa invecchia drammaticamente, «l’Africa nostra dirimpettaia cresce tumultuosamente: entro il 2050 la sua popolazione sarà il doppio di quella di oggi». La sola Nigeria, oggi al settimo posto, prima della metà del secolo scalzerà gli Stati Uniti dal terzo posto, dopo la Cina e l’India. Non solo, già ora i 10 paesi più giovani del mondo come popolazione sono tutti africani, con una media attorno ai 20 anni.
Ma il volume non è solo ricco di analisi, dati e proposte: come dicevamo c’è un pensiero umanistico di fondo. Ben riassunto dalle citazioni di alcuni grandi autori cristiani: da Pascal che nei Pensieri dice che «la nostra natura è il movimento, il riposo assoluto è la morte», a Chesterton per il quale «il fine del viaggio non è di metter piede in un paese straniero, è di metter piede nel proprio paese come se fosse un paese straniero », sino a Claudel che invita a non sottolineare solo il bisogno di radici proprio dell’uomo ma anche di volger gli occhi verso l’alto, al cielo. Esattamente come fanno le piante, con le loro radici ma anche i fiori e i frutti. Proprio come esorta Gesù nei Vangeli: «Dai loro frutti li riconoscerete».