Gli amici di Lolek (Ed. Terra Santa, pagine 141) è il libro di Gian Franco Svidercoschi in cui si ripercorre la vicenda del giovane Wojtyla (Lolek) e di alcuni suoi amici, compagni di studi a Wadowice, cattolici ed ebrei, nella Polonia alla vigilia della duplice invasione nazista e sovietica con le relative repressioni, deportazioni, lager, gulag, stermini, esecuzioni di massa. In particolare, oltre a quella del cattolico Lolek, il libro racconta le storie degli ebrei Jerzy Kluger (Jurek), Kurt Rosenberg ed Ewa, il cui cognome è rimasto sconosciuto. Amici tragicamente divisi, che si pensavano morti e che dopo anni si ritrovano vivi e tutti insieme al mausoleo dello Yad Vashem e al Muro del Pianto durante la visita di Giovanni Paolo II a Gerusalemme per il Giubileo del 2000. Qui anticipiamo un estratto dal capitolo IV relativo alle deportazioni sovietiche e al massacro di Katyn.
Appena realizzata l’annessione militare dei territori della Polonia orientale alla Russia, si dà l’avvio a quella, per così dire, sociale e politica. Un milione e mezzo di polacchi vengono deportati nei gulag sovietici, in Siberia e nell’Asia centrale. E quegli stessi territori vengono ripopolati con l’ingresso forzoso di famiglie ucraine e russe. È evidente l’intento sovietico di asservire la Polonia, eliminando una parte considerevole della classe dirigente nazionale. Non altrimenti si spiegherebbe – appena due giorni dopo l’invasione da parte dell’Armata Rossa – la decisione di aprire campi di detenzione per i prigionieri polacchi. Né si spiegherebbe, a maggior ragione, lo spaventoso massacro, consumato nella foresta di Katyn, fra il 3 aprile e il 19 maggio del 1940: l’esecuzione – su ordine di Stalin, e per mano degli uomini dell’Nkvd – di quasi 22.000 prigionieri di guerra polacchi, fra cui 8.000 ufficiali, mentre gli altri, sono sottufficiali, soldati e civili. Di tutto questo, per anni, il mondo non avrebbe saputo nulla. Il governo sovietico ha negato in tutti i modi, ha cercato anzi di addossare la responsabilità dell’eccidio ai nazisti. E quasi certamente per questo motivo vennero usate armi e munizioni tedesche. Finché, nell’aprile del 1943, vennero scoperte le prime fosse comuni. In una fossa, lunga 28 metri e larga 16, furono rinvenuti dodici strati di corpi esanimi di ufficiali polacchi...
Cominciano le deportazioni in massa. Treni strapieni, con viaggi che talvolta durano otto settimane per raggiungere i gulag siberiani. Anche i Kluger, il padre e il figlio Jurek, subiscono la stessa sorte. Una sera, alcuni militari piombano nella loro stanza a Leopoli, e li trascinano su un treno. Per fortuna, ci mettono soltanto diciassette giorni per giungere a Maryjskaja, nel nord della Russia. Lo chiamano “campo di rieducazione”, ma in realtà è un lager con filo spinato e un’accozzaglia di baracche di legno. Jurek, come altri giovani deportati, è adibito al taglio degli alberi in una foresta di pini. Quando lui o i suoi compagni, mani e piedi congelati, si fermano un attimo, i militari russi li richiamano al- l’ordine punzecchiandoli con le baionette: «Lavorare! Lavorare! Oggi dovete tagliare ancora dieci alberi. Sennò non si torna. E niente cena!». Per gli anziani, grazie al cielo, i soldati russi hanno un occhio di riguardo. E infatti, vista l’età e la salute malferma, l’avvocato Kluger viene messo a fare il guardiano. [ ]
La signora Rosenberg e i figli si sono rifugiati in casa. Da quando hanno portato via il capitano, non hanno più avuto il coraggio di uscire. È il 13 aprile quando si sente un gran rumore alla porta, gli uomini dell’Nkvd la forzano e la buttano giù. Quello che sembra il capo urla: «Sbrigatevi! Prendete i cappotti e mettete solo le cose necessarie in una valigia». Kurt chiede con un filo di voce: «Ma dove ci portate? ». Il capo: «Dove sta già tuo padre!», ma si capisce che non sta dicendo la verità. Con un furgone, li trasferiscono alla stazione di Leopoli, li fanno salire su un treno già pieno di gente. Sono famiglie – mogli e figli – di altri ufficiali polacchi arrestati, e dei quali non si sa più niente. Su quello stesso convoglio c’è anche Ewa, con la mamma e i due fratelli. Va a cercare un’amica in un altro vagone, e trova invece Kurt. Che sorpresa! Si abbracciano, per un attimo felici, commossi. Si raccontano brevemente le rispettive disavventure, l’arresto e la scomparsa dei loro papà. Nessuno dei due sa dove andranno a finire, ma quasi certamente in un campo di detenzione. Ricordano gli amici, la scuola, quell’ultimo ballo... [ ] Parlando, Kurt le mostra che, sotto i pantaloni, sdruciti, logori, ne porta un altro paio, nuovi. «Me li ha regalati mia madre una settimana fa. Ed è stato il più bel regalo che potesse farmi» Ewa scoppia a ridere, ma poi si fa seria, capisce il senso delle parole dell’amico. Si abbracciano, con la promessa di rivedersi il giorno dopo; poi, ognuno ritorna al proprio vagone. Alle sei del mattino, al primo rallentamento del treno, e mentre il soldato russo di guardia si è appisolato, Kurt riesce a buttarsi giù dal convoglio, e scappa via, correndo a perdifiato. Non vuole sparire nel nulla, come suo padre. Non vuole passare la sua gioventù in un gulag. Ha voglia di vivere! Ha voglia di libertà! [ ]
In un locale quasi buio, con al centro un piccolo tavolo, due uomini dell’Nkvd consultano delle carte, scorrono un elenco di nomi. Finché uno punta il dito: «Ecco, Herman Rosenberg, capitano», e guarda il prigioniero che gli sta davanti. Rosenberg porta l’uniforme militare, ed è ammanettato. Abbassa gli occhi, come per dire che è lui, quel nome, ma lo fa con grande dignità, con fierezza. Accanto, c’è un altro della polizia segreta. Appena avuta la conferma prende per un braccio l’ufficiale polacco, lo accompagna per un lungo corridoio e lo fa entrare in una cella isolata. Lo fa sedere su uno sgabello e, nel mentre si alza un rumore fortissimo, assordante, per “coprire” la scena, un soldato russo poggia la pistola alla nuca di Rosenberg, una Walter Ppk, e spara. Il cadavere viene trascinato all’aperto e caricato su uno dei sei camion che continuano a fare su e giù dal carcere alle fosse della foresta di Katyn. Nel primo locale, quello col tavolo, entra un altro prigioniero: è un altro ufficiale polacco, anche lui in divisa, anche lui ammanettato. Anche lui identificato, portato di là, assassinato con una Walter Ppk.