martedì 20 agosto 2024
Il presidente del Comitato paralimpico internazionale: «Il nostro primo obiettivo? Dare una nuova prospettiva in modo duraturo su cosa significhi essere disabili nel mondo di oggi»
Andrew Parsons, presidente del Comitato Paralimpico Internazionale

Andrew Parsons, presidente del Comitato Paralimpico Internazionale - Ansa/Epa/André Pain

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«I Giochi appena conclusi sono stati un’ottima premessa per quello che sarà il vero clou di Parigi 2024, le Paralimpiadi, naturalmente!». Il brasiliano Andrew Parsons, dal 2017 alla guida del Comitato Paralimpico Internazionale, oltre che membro del Cio dal 2018, lancia la battuta con un sorriso in cui la componente di humour si ritrova in realtà subito sommersa da qualcos’altro: l’ambizione ferma e per nulla velata di far uscire definitivamente lo sport per disabili dalla zona d’ombra in cui è rimasto accantonato in passato. In proposito, mostrandosi già al fianco di personalità come la sindaca di Parigi Anne Hidalgo o il capo di Parigi 2024 Tony Estanguet, Parsons ha applaudito la dichiarata volontà francese di dedicare alle Paralimpiadi «lo stesso livello di ambizione delle Olimpiadi».

Le Paralimpiadi faticano ancora a guadagnare i titoli di testa dei media. Secondo lei, come ovviare?

«Occorre scommettere certamente su una diffusione televisiva crescente, come avverrà già con Parigi 2024. Ma non dimentichiamo che la differenza di visibilità che ci separa dalle Olimpiadi è legata pure al fatto che il movimento olimpico ha già più di un secolo di storia. Il nostro movimento, invece, è molto più giovane, avendo meno di 40 anni. Il nostro tasso di crescita è buono e direi che oggi non ci troviamo più nel cono d’ombra delle Olimpiadi. Piuttosto, siamo già in una fase di collaborazione reciproca fruttuosa con l’evento sportivo numero uno in assoluto. Per questo, rispetto a tanti altri movimenti sportivi, godiamo di una situazione molto invidiabile che ci offre ottime prospettive per crescere ancora. Abbiamo, insomma, il partner ideale per propiziare i cambiamenti che promuoviamo su scala mondiale».

Quali sono stati i maggiori progressi del movimento paralimpico nell’ultimo decennio?

«Penso che siamo divenuti un evento sportivo molto rilevante. Probabilmente, il terzo più rilevante su scala planetaria. Ma abbiamo anche rafforzato i nostri legami con il movimento internazionale per i diritti umani. Dunque, oltre a essere un evento sportivo eccitante da seguire, siamo pure un movimento con un obiettivo chiaro. E personalmente, ritengo che in generale il futuro dello sport sarà all’intersezione fra l’intrattenimento e un impegno volto a uno scopo umanistico».

Per Thomas Bach, alla guida del Cio, l’Olimpiade appena conclusa è stata quella «di una nuova era». Una svolta che riguarderà pure le Paralimpiadi?

«Me lo auguro, perché come dicevo continuiamo a crescere e questo contesto parigino esalterà ancor più il carattere spettacolare delle nostre competizioni. Avremo certamente un impatto ancora più forte che in passato, con più persone di tutto il mondo pronte a seguire i nostri atleti. Sì, personalmente, sono convinto che siamo giunti a un punto di svolta, non solo per il movimento paralimpico, ma pure nella percezione sociale della disabilità su scala globale».

Dobbiamo attenderci sorprese durante quest’edizione?

«Soprattutto, direi, l’evidenza di essere approdati, come mai prima, a un nuovo livello. Rispetto ai nostri esordi ancora piuttosto recenti, alla fine degli anni Ottanta, sentiamo già di poter dimostrare che il nostro movimento può esercitare una vera influenza sui comportamenti, le percezioni, le tendenze nella società».

È davvero una buona idea organizzare le Paralimpiadi subito dopo le Olimpiadi?

«Sì, credo sia per noi il miglior calendario e formato possibile. In termini di infrastrutture, abbiamo bisogno di restare assieme. Inoltre, come si sta vedendo qui a Parigi, l’Olimpiade, un po’ come una sorella più avanti in età, può contribuire a risvegliare il massimo interesse verso il nostro evento».

Qual è la sua prima ambizione per quest’edizione a Parigi?

«Il primo obiettivo, in questo contesto parigino, è quello d’imboccare in modo duraturo la strada per cambiare le mentalità sulla nostra percezione generale di cosa significhi essere dei disabili nel mondo di oggi. In questa grande sfida sempre più evidente per tutte le società, anche in continenti prosperi come l’Europa, vogliamo essere visti e compresi come l’evento con il maggiore potenziale di trasformazione sul pianeta».

Siamo già in cammino per sradicare i vecchi stereotipi su handicap e sport?

«Penso di sì, ma abbiamo ancora davanti una montagna di lavoro da scalare. Evidentemente, non basta che un largo pubblico si entusiasmi ogni 2 anni, alternativamente, per gli atleti paralimpici dei Giochi estivi e di quelli invernali. In quest’ultimo caso, attendendo Milano-Cortina 2026. Occorre che il nesso fra sport e handicap resti rilevante per la gente anche fra un’edizione olimpica e l’altra. Se dovessimo riuscirci, ci avvicineremmo davvero al nostro obiettivo finale».

In certe discipline, degli atleti con handicap sono capaci di competere pure fra chi non ha handicap. Sono casi da valorizzare?

«Ciò è estremamente importante innanzitutto per ciascuno di questi atleti. Perché ogni atleta, con o senza handicap, sogna di andare più in là e di accedere a un livello più alto di competizione. Ma si tratta comunque di un numero molto ristretto di discipline, o di categorie di prove. Inoltre, in tutti i casi, occorre restare vigili per garantire una piena correttezza sul piano dell’equità sportiva».

In una città dal Dna rivoluzionario come Parigi, lei ha lanciato un appello per una “rivoluzione dell’inclusione”. Cosa intende?

«Dovremmo riuscire a cambiare il nostro modo di percepire l’intera società. Una società è per tutti e deve essere costruita da tutti. Quando cominciamo i nostri ragionamenti separando le persone disabili dagli altri, commettiamo già un errore, pur senza volerlo e certamente in buona fede. Ai Giochi Paralimpici, a differenza di quanto ancora credono alcuni, il pubblico non è affatto composto principalmente da persone con handicap. Si tratta in generale di appassionati di sport d’ogni tipo che vengono semplicemente per ammirare e incoraggiare dei grandi atleti in azione. Ecco un buon inizio per la rivoluzione dell’inclusione».

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