Il pianista e compositore Remo Anzovino
Da qualche tempo esiste un nuovo linguaggio musicale o, meglio, una nuova frontiera per i compositori: legata ai docu-film sulla grande arte. Perché il successo nelle sale di tutto il mondo di opere cinematografiche quali Hitler contro Picasso e gli altri, Van Gogh tra il grano e il cielo, 'Le Ninfee di Monet e, buon’ultima, Gauguin a Tahiti Il paradiso perduto è dovuto anche a colonne sonore diverse dalle solite, che schiudono possibilità nuove agli artisti diventando poi richiestissime, quali opere musicali tout-court, sul mercato internazionale. E l’autore di tutte queste colonne sonore è uno soltanto, Remo Anzovino: compositore di Pordenone classe ’76 con all’attivo già anche la sonorizzazione di importanti pellicole del cinema muto, progetti discografici crossover su Pasolini o Muhammad Ali e album di inediti contemporanei come l’ultimo Nocturne. Reduce dalla sua prima esibizione in carriera sull’importante scena di Londra, Anzovino ha vinto anche il Nastro d’argento, per il nuovo linguaggio: definito dal premio “Musica nell’arte”. Ora i suoi ventidue brani per il docufilm su Gauguin escono in digitale sulle piattaforme mondia-li, in attesa magari di un cofanetto di cd fisici che ne riassuma l’intero, innovativo, percorso; mentre l’artista sdogana la “musica nell’arte” anche a teatro, nello spettacolo La grande storia dell’Impressionismo col critico Marco Goldin.
I docu-film d’arte cosa consentono di inedito o, comunque, di raro da affrontare per un compositore?
Intanto sono un prodotto nuovo. Uniscono la grandiosità del cinema, l’accessibilità a dettagli di opere inestimabili e, tramite le voci di grandi attori, narrazioni di figure straordinarie: se non mondi culturali interi. Musicalmente commentarli dona molte opportunità, anche perché si può gestire la musica in toto senza compresenza di canzoni o musiche di repertorio: e questo, specie in Italia, non si fa da anni. Inoltre siccome devi seguire una storia ampia, puoi creare un album che non sia un insieme di musiche a metro, bensì una partitura davvero compiuta da cui dopo, si ricavano i tagli d’appoggio al film: senza limitare la creatività. Senza scordare che poter dare vita a un quadro, ma anche allo schermo bidimensionale del cinema, è qualcosa di unico per un musicista, per certi versi di nuovissimo.
Cosa rappresenta per lei il Nastro d’argento vinto con le tante opere che ha dedicato a questo linguaggio?
Il riconoscimento all’aver proprio cercato una via diversa, approfittando del fatto che i produttori qui chiedono partiture con tutti i crismi compreso quello dell’internazionalità, che non è poco. Ovviamente un premio come il Nastro d’argento è anche sprone a studiare ancora, a sfruttare sempre di più il fatto che comporre per questi docu-film permette di sperimentare, e di esprimersi in toto nel suono.
Nell’ultimo lavoro, su Gauguin, come ha proceduto?
Senza mirare alla musica di Tahiti. Sia perché Gauguin è ricerca di sogno, di fuga dalla realtà, di rapporto con l’Altrove; sia perché dalle sue memorie era chiaro quanto egli avesse in mente una cultura musicale occidentale, Beethoven in primis. Quindi in alcuni brani ho lavorato su forme classiche nostre introducendo elementi di contrasto, in altri su suoni filologicamente scorretti: loop, carillon africani, l’ukulele suonato come la chitarra e il violino come l’ukulele. Per evocare l’Altrove non serviva essere didascalici, né tantomeno pescare nell’ovvio.
Cerca sinestesie fra dipinti e mu- sica, componendo?
Sicuramente alcuni brani nascono dai quadri. In Gauguin Yellow Christ viene dall’osservazione dell’opera, in cui lui ritraeva sé: e il regista l’ha usato a commentarne tentato suicidio e morte. Mentre da Manao Tupapau ho cercato di far emergere la sua sensualità mai esibita, da ritorno alle origini.
Cambia, comporre su un Gauguin o su un Monet?
Cambia sempre. Io parto dalla mia immaginazione, come fossi uno degli spettatori del film finito. Vivo dunque sceneggiatura o grezzo senza scriverci sopra di getto, cerco musiche che non svaniscano con il film.
A teatro con Goldin cosa proponete?
Musica e parole in contrappunto dentro un racconto dominato da tre schermi giganti, sessanta metri quadrati a led che immergono non solo nelle opere, ma anche in inquadrature cinematografiche apposite dei luoghi degli Impressionisti che pixel dopo pixel diventano i loro quadri che ben conosciamo. L’idea di Goldin era non fare lezioni né concerti, bensì un percorso davvero teatrale di grande presa.
A quando un suo nuovo disco di brani inediti?
Prima voglio terminare anche all’estero il percorso di Nocturne. Poi nel 2020 capitalizzerò in un album nuovo anche quanto ho potuto sperimentare nei docufilm. Col mio obiettivo di sempre: l’urgenza di tradurre in suoni il nostro tempo.