« A -dria-no, A-dria-no... ». Appena è sfumato il coro infernale del Foro Italico è anche calato il sipario, e col tempo, perfino un velo pietoso sul tennis azzurro. Memorie d’Adriano. Il graffio roco e accalorato della voce di “Bisteccone” Galeazzi ha chiuso la diretta salutando commosso il suo smash d’addio al Centrale. La Vip “scordata” è andata a riposo nel fodero e adesso è appesa alla parete di casa Panatta, l’ultimo eroe nazionale dei gesti bianchi.
Il suo eterno volto d’attore presto sarà quello del protagonista del prossimo film di Mimmo Calopresti. «Mimmo è un amico e questa idea del film nasce dalla voglia di raccontare gli anni ’70 partendo da quella storica vittoria di Coppa Davis in Cile, sotto il regime di Pinochet. C’era un’atmosfera strana, ma la tensione maggiore l’ho vissuta nell’Argentina di Videla: dall’albergo al campo si andava scortati dalle camionette dell’esercito. Un clima surreale...».
Cosa ha lasciato in quegli anni, oltre ai successi in campo? «La gioventù - sorride - . I ’70 sono stati anni di grande fermento, di talenti in ascesa in ogni ambito, dallo sport alla cultura. E poi c’erano tante belle ragazze e della buonissima musica per innamorarsi».
Era il tempo di “Questo piccolo grande amore”»...«Le note che mi riaffiorano spesso sono quelle del debutto nella stessa sera e dallo stesso palco di tre “giovani”: Venditti, De Gregori e Cocciante. La mia colonna sonora però è sempre stata la voce di Mina, lei incarna al meglio l’anima italiana».
Panatta invece resta ancora l’ultima anima del tennis italiano, il figlio di Ascenzio, il custode del Circolo Parioli che rese finalmente democratico lo sport dei nobili. «Non mi sono mai sentito strumento della lotta di classe applicata al tennis. Sicuramente le mie vittorie e quelle della Nazionale accelerarono un processo di popolarizzazione. Da lì in poi anche il figlio dell’operaio poteva permettersi l’iscrizione a un circolo per prendere lezioni da un maestro».
Merito suo e degli altri tre moschettieri azzurri: Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli, la “squadra perfetta”. «Eravamo quattro personalità diversissime l’una dall’altra e anche quattro stili totalmente differenti in campo, ma a unirci fu l’essere stati tutti allievi del maestro Mario Berardinelli».
Che cosa ha significato essere un tennista in Italia negli “anni di piombo”? «Il fatto di viaggiare continuamente per il mondo ci rendeva immuni da quella “strategia della tensione” che era stata messa in atto. Eravamo concentrati sui tornei e la realtà del nostro Paese vista dall’estero ci sembrava meno terribile».
Nel tennis i giocatori di colore sono sempre stati in minoranza, una forma di razzismo? «L’unico episodio assurdo mi capitò nel ’77 a Houston, lì nel circolo non erano ammesse persone di colore. Vinsi il torneo, ma quel cartello “vietato l’ingresso ai neri” mi fece star male... Sono passati trent’anni, per fortuna adesso negli Usa c’è Obama presidente e i giocatori di colore sono tanti e competitivi».
Il tennis però, dicono, era migliore quello di trent’anni fa... «È diventato più noioso. La differenza è che nella mia generazione c’erano almeno 20 giocatori ognuno con un loro preciso e distinto modo di giocare. Oggi giocano tutti alla stessa maniera, tranne Nadal che è di un altro pianeta. E Federer che è il giocatore perfetto, basta che non incontri Nadal».
Due protagonisti dello star-system più che del tennis mondiale. «Se c’è una cosa che non ho mai sopportato è il divismo nello sport. Trovo imbecille quel campione che possa sentirsi superiore a Gino Strada solo perché riesce a mettere la palla dentro le righe... La mia vera forza è stata non prendermi mai troppo sul serio».
E pensare che uno che ha il copyright della “veronica” (volèe di rovescio alta con schiacciata da dietro) e della “volèe in tuffo” con la sua Vip Panatta poteva anche tirarsela un po’... «Gesti naturali, istintivi. Non mi ricordo la prima volta che feci la “veronica” e i tuffi erano l’eredità di un passato da portiere di calcio. La Vip era di legno, ma la produceva un’azienda metalmeccanica di Bassano del Grappa. È durata fino a quando non ho smesso, poi è cominciata la grande rivoluzione dell’attrezzo metallico, la fine del tennis epico...».
Requiem per tutti i “giocatori d’attacco” come l’Adriano del Foro Italico. «Gente più spettacolare i giocatori d’attacco. Eppure io e Noah siamo stati due casi rari che hanno vinto al Roland Garros. Impresa che non è riuscita a fuoriclasse come Becker, McEnroe. Lo stesso Federer lo vive come un tabù. Un giorno mi fa: “Beato te Adriano che hai vinto a Parigi”. E io: ma parli tu che hai vinto 5 volte Wimbledon?...».
Borg , McEnroe, Nastase, Igueras, Ashe, Vilas, chi è stato dei suoi avversari il vero fuoriclasse anche fuori dal campo? «Ashe era il più impegnato socialmente, specie per i diritti dei neri. McEnroe era un principe dell’eccesso in campo, quanto pacato e riflessivo fuori. Si è sempre interessato di tutto: oggi è un grande esperto d’arte e la sua Galleria è una delle più importanti di New York. Come musicista mi piace un po’ meno, meglio le poesie di quel romanticone di Vilas. Le ha mai lette? Carucce».
Non abbiamo ancora battuto sulla grande crisi del tennis italiano. «E non facciamolo - sorride - . I talenti ci sono, manca una “specialistica” per allenarli alla correzione dei difetti tecnici. Nella mia Accademia fin da piccoli insegniamo il gioco semplice, il tennis come divertimento che può anche diventare una professione, altrimenti resterà una magnifica passione da poter coltivare per tutta la vita ».
Ma non le piacerebbe allenare qualche campione in erba? «Appena i miei figli si decideranno a darmi un nipote prometto che torno in campo per allenarlo personalmente. E allora magari sentirete parlare di un altro Panatta».