John Keats in una fotoincisione da Joseph Severn - WikiCommons
È appena uscita la più ampia raccolta delle lettere di John Keats, il sessanta per cento della sua scrittura più rivelatrice, unico vero commento biografico di una vita romantizzata, e bloccata nell’autoritratto marmoreo della poesia, come scrive a piena ragione Alessandro Gallenzi, che le presenta nel loro mobilissimo caleidoscopio: La valle dell’anima. Lettere scelte 1815-1820 (Adelphi, pagine 534, euro 24).
Keats è un essere mercuriale, un elfo che cerca se stesso attraverso ogni voce e forma possibile, avido di vita, di esperienze, di amici, che scrive a ruota libera proprio su tutto, alle persone amate: i fratelli, la fidanzata, Brown, Haydon, Hunt, Severn. Salta da un argomento all’altro con totale libertà e bizzarria, riempiendo le pagine a righe incrociate fino all’ultimo millimetro di spazio: cita poeti e prosatori; chiosa Spenser, Milton e Shakespeare, i suoi modelli; inventa sonetti, frammenti di tragedie, odi, canzoni, ballate, frutti seri e giocosi di un’immaginazione instancabile e brillante, mentre commenta ogni minimo fatto, tragico e futile, tra sentimenti fluttuanti, passioni, riflessioni, rimpianti e desideri inarrivabili. Descrive incontri e cene, pasti e bevute, e - mirabilmente - i paesaggi del nord, la Scozia, l’isola di Staffa e la grotta cattedrale di Fingal, il monte Ben Nevis, con maggiore fascino di Burns, di Walter Scott, e di Ossian. Il senso della natura e del sublime intravisto nello scorcio del mare tra le grotte, le montagne, picco dopo picco, tra brughiere e paludi, nel verde dei prati e delle foreste che ha formato il paesaggio di Endimione, il poema-foresta, si mescola a osservazioni di folclorista e agli scherzi popolari, anzi plebei, ai giochi di parole triviali.
Alto e basso si rovesciano l’uno nell’altro all’infinito. Vuole apprendere, amare, essere amato. Non è sicuro della sua cultura, ma è sicurissimo di sé come poeta che mira alla perfezione e all’assoluto, più dei marmi del Partenone o dell’urna attica - A thing of beauty is a joy for ever, perché «Bellezza è verità, verità bellezza, - ed è tutto ciò/ che sappiamo sulla terra, e tutto ciò che dobbiamo sapere»: pronto a ripudiare quel che gli è costato immensamente fino a quell’istante, perché sa di potere cambiare, andare sempre oltre se stesso; umile e sdegnoso nel contempo. Perciò ha abbandonato la professione sicura del farmacista, tutto concentrato a fare anima diventando quel che è.
Non è vero che il dolore per le stroncature e i dileggi feroci lo portano alla tisi e alla morte; l’insuccesso non gli fa paura, preferisce fallire piuttosto che non trovare posto fra i grandi. L’amore di gloria è stimolo, come nei greci e in Leopardi. I rapporti tormentati con i contemporanei e lo sprezzo dell’odio di classe lo danneggiano, ma favoriscono l’immagine della vittima e dell’eroe simbolo. Vince l’irresistibile rintocco delle rime dolorose in sorrow tomorrow, il mourning dell’usignolo che non avrà domani, lo struggimento dell’inattingibile festa della vita, il destino di perdita e morte di ogni suo personaggio devoto alla Dea Bianca che promette amore, morte, poesia/immortalità: Endimione, Iperione, il poeta cavaliere schiavo della Belle dame sans merci, Licio amato da Lamia.
Non è che ciò non sia reale. È la volontaria-involontaria costruzione di una vita che avrebbe voluto essere diversa, aperta a tutte le possibilità, come mostrano le lettere. Eppure, l’intensità potentissima che raggiunge la poesia di Keats, è qualcosa che raggiunge un vertice, influenzando da allora la più grande lirica moderna in ogni suo diverso volto: Baudelaire, Dickinson, Yeats, Rilke. Scrive Hoffman: «Solo il poeta conosce il poeta: solo un sentire romantico può compenetrarsi con ciò che è romantico». Si tratta di una iniziazione estatica, che comprende la morte, suggerisce.
Il libro di poesie di John Keats, morto a Roma di tisi il 23 febbraio 1821 a 26 anni, fu trovato nella tasca di Percy Bisshe Shelley l’8 luglio 1822, quando il suo corpo fu recuperato dal naufragio, sfida mortale ai venti dell’infinito simile a quella di Byron, morto nel 1824 per la libertà della Grecia. Tre destini in uno: due ricchi lord dai liberi costumi versarono sangue e denaro, il piccolo borghese sangue. Nelle lettere, man mano che la malattia grava senza scampo, tutte le espressioni del poeta camaleonte, la «più impoetica delle creature», le riflessioni sul mondo come la «valle che fa l’Anima», si concentrano nell’archetipo dell’eros di Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre: un pensiero in evoluzione sulla idea di Bellezza e Verità congiunte: «Non sono sicuro di niente se non della Santità delle affezioni del cuore, e della verità dell’Immaginazione. Ciò che l’Immaginazione coglie come Bellezza deve essere verità, che esistesse prima o no, perché ho delle Passioni la stessa idea che ho dell’Amore: che sono tutte, al massimo della loro intensità, creatrici di Bellezza pura. (…) L’Immaginazione potrebbe essere paragonata al sogno di Adamo: si svegliò e trovò che era vero».
Eros, verità, bellezza: veri e impossibili. O frustrati? Yeats ebbe paura di Keats. Di una poesia 'riflessa' nella malinconia di una vita mancante: la «vita nello specchio», come scrisse nel 1904, in Primi principi. Ne possedeva tutta la musica più sirenica. Temeva il tormento irrisolto di Keats, che «sprofondò nella tomba/ Con i sensi e con il cuore insoddi-sfatti, / E fece - povero, malato, privo di maniere,/ Escluso da ogni lusso del mondo,/ Il figlio rude di uno stalliere -/ Un lussuoso canto». (Per amica silentia lunae, 1917).