I “principi” delle Orobie: il Branzi, il Bitto, lo Storico Ribelle, lo Strachitunt e il Formai de Mut
«Per magia dei pascoli, da latte vaccino, il Branzi è formaggio degno di denominazione e vanto. A base di latte di vacca, ha grossa forma cilindrica, peso dai 10 ai 13 chili, pasta semi-dura sino a sei mesi, poi dura di colore giallognolo, gusto dolce da giovane, aromatico sino al piccante da stagionato. È formaggio da tavola. Lo trovi nelle malghe di Monte Colle alla cooperativa casearia Giacomo Midali in via san Rocco. Formaggi tipo Branzi sono prodotti a Carona, Foppolo, Mezzoldo, Piazzatorre, Roncobello e Valleve in Val Brembana; a Cassiglio, Cusio e Ornica in Valtorta; ad Alboraggia e Fisine in Valtellina ». Così il “gastronomo” Luigi Veronelli su “Epoca”, nel 1971 definisce il Branzi. Oggi le “Cheese valley” fra le province di Bergamo, Lecco e Sondrio, dove si producono formaggi dalla storia millenaria, sono le capitali europee del settore con nove Dop sulle 50 italiane, sostengono la candidatura del capoluogo bergamasco come città creativa Unesco per la gastronomia e sono le protagoniste di “Forme”, la manifestazione dell’arte casearia italiana d’eccellenza (www.progettoforme.eu) che dal 17 al 20 ottobre propone iniziative, attività, mostre, laboratori e degustazioni con lo scopo di promuovere la conoscenza dei formaggi, delle tecniche di produzione, del territorio d’origine e della loro storia. Dalla vacca alla bufala, dalla pecora alla capra, con infinite varianti di lavorazioni e stagionature, la manifestazione ospiterà a Bergamo formaggi di ogni latitudine e tipologia.
Un’occasione gastronomica, ma anche di scoperta di questo pezzo d’Italia. Così entrare nelle forme dei “principi delle Orobie” è come addentrarsi in un terra tutta inattesa e sorprendente. Prendiamo il Branzi. Ma anche il Bitto e il “puro e assoluto” Storico Ribelle. Con tutto quello che questi nomi si portano dietro di cultura, di storia, di disciplinari e anche di “battaglie” per mantenere salda la tradizione e il gusto. Quella che si può fare, partendo da Bergamo per risalire la Val Brembana, verso le Alpi Orobie, è un’esperienza gastronomica obiettivamente straordinaria. Quasi mistica per la passione e il senso di identità che questi formaggi e chi li produce evocano. Dopo aver superato la meraviglia liberty di San Pellegrino Terme, il centro di Lenna con la sua suggestiva centrale elettrica, Moio de’ Calvi, uno sguardo verso la chiesa di Baresi dove si trova un antico mulino in pietra recuperato dal Fai, ecco Branzi, un centro di 800 abitanti che deve il suo nome alla posizione dell’abitato: da “Branchium”, braccio, fra le valli Valleve e Carona. Qui ci sono quasi mille anni di storia della caseificazione bergamasca, anche se le origini sono certamente di epoca pre romana, con testimonianze archeologiche che dimostrano transumanze e alpeggi arcaici, attorno ai quali ha sempre ruotato la vita di queste comunità. Fra l’800 e il 900 è già il cuore del mercato delle Orobie: a settembre per la fiera di San Matteo qui «da ogni parte della provincia concorrono negozianti a far provvista di formaggio», scriveva lo storico Maironi da Ponte nel 1819, come annota nel libro Branzi il formaggio dell’identità orobica Alberto Marcomini con le foto di Paolo Castiglioni (Stella edizioni). Oggi come allora qui si parla di transumanze, di alpeggi.
Cambiano le tecniche e i macchinari di produzione, ma non il prodotto. Basta entrare alla Latteria Sociale Casearia di Branzi, nata nel 1953 per volere di Giacomo Midali, un casaro (quello citato da Veronelli) che nell’Italia del boom del Dopoguerra ha una visione: produrre tutto l’anno quel formaggio di alta qualità che da sempre caratterizza le montagne attorno alla Val Brembana. La Latteria è oggi gestita dalla terza generazione. Grandi vasche d’acciaio hanno sostituito le tradizionali caldere a campana di una volta, la cagliata è rotta da attrezzi rotanti e le temperature sono ovviamente regolate da termostati. «Come in tutte le produzioni, gli attrezzi moderni sono entrati anche nei nostri caseifici – spiega con entusiasmo il giovane Francesco Maroni che ha preso in mano l’attività di famiglia ed è proprio il presidente di “Forme” –, ma il Branzi resta sempre quello di una volta. L’arte dei nostri maestri casari resta la stessa. Sono loro a conservare nel tempo la freschezza di un sapore antico». Al caseificio di Branzi fanno riferimento 70 aziende, tutte a conduzione familiare, e si producono circa 30mila forme da 10 chili di Formaggio Tipico Branzi. Qui stagionano forme di Formai de Mut, fatte in alpeggio in estate, altre forme invecchiate anche otto anni, e poi lo Storico Ribelle e lo stracchino antico Strachitunt. A Branzi c’è un cuore giovane che cresce con il formaggio. Un’esperienza che passa le generazioni. E accoglie. Una delle colonne del caseificio è Muhamed, 38 anni, di origine marocchine, cresciuto a pane e branzi. Le sue mani rompono il caglio al momento giusto. E come Francesco consegna la tradizione al futuro.
A pochi chilometri dal caseificio, c’è un altro luogo culto di questa valle: “Da Ferdy”. Un agriturismo e molto di più. Ferdy, Ferdinando Quarteroni, può considerarsi il paladino e il custode della storia casearia orobica. Con la moglie Cinzia e i figli Alice e Nicolò, in un luogo paesaggisticamente straordinario, raggiungibile solo da un ponticello, nel 1989 ha avviato la sua azienda per portare avanti una forma di «agricoltura estrema», il cosiddetto “Ferdy wild”, «il nostro modo di vivere la montagna»: tutti i prodotti sono preparati con il latte di animali allevati in azienda, rigorosamente solo capre di razza Orobica e vacche di razza Bruna Alpina che Ferdy direttamente conduce in alpeggio in val d’Inferno. «Gli animali si alimentano solamente a pascolo ed erbe spontanee, sono munti a mano e i formaggi sono prodotti a latte crudo – spiega Nicolò, 27 anni, presentando le chicche della loro produzione –. I nostri vecchi casari, i nonni delle nostre origini, a Ornica, hanno sempre lavorato così. Così vogliamo continuare a lavorare anche noi». Una tradizione che si sposa con il concetto di benessere. Così l’agriturismo riserva bellissime camere, esperienze sportive e naturalistiche, sport equestri, una stupenda cantina, una Spa con trattamenti a base delle materie prime dell’azienda, bagni di siero di latte, oli essenziali, fieno montano e lana della pecora bergamasca. Una tradizione “moderna” che si fa conoscere con il “passaparola-social” e le dirette in streaming dell’“antica” produzione. Francesco Maroni e Nicolò Quarteroni sono l’immagine di una montagna giovane, che punta in alto e guarda lontano.
Se lasciando la Val Brembana si percorrono i tornanti che portano su, fino al passo di San Marco, con il suo rifugio fra gli alpeggi, si arriva in Valtellina, a Morbegno, in provincia di Sondrio, a scoprire lo Storico Ribelle, il Bitto storico selezionato nella Casèra di stagionatura di Gerola Alta, divenuto poi presidio Slow Food. L’«eletto», il «mito», nato dalla “guerra del Bitto”, da chi, invece di piegarsi all’agroindustria, dal 1996, lotta per esistere in purezza con un disciplinare rigidissimo rispetto a quello della Dop, contrari all’allargamento dell’area di produzione e alla moltiplicazione dei produttori, all’utilizzo di mangimi e fermenti industriali. «Mettiamo in commercio appena mille forme, siamo dieci produttori che sosteniamo le mani contadine e le produzioni storiche, che difendiamo l’erba delle Orobie – spiega il “ribelle” Paolo Ciapparelli, mostrando gli spazi della nuova sede dello “Storico Ribelle” a palazzo Folcher, a Morbegno –. Dieci anni fa ridevano tutti. Ora non più. Anche la gente vuole un ritorno all’autenticità ». La lotta per il nome è stata lunga e faticosa: «Pensate alla difficoltà di produrre il Bitto, senza poterlo chiamare Bitto». Eppure la sfida è stata vinta. E da tutto il mondo si contendono le mille forme di Storico Ribelle, anche personalizzandole con un proprio stemma, come fosse un gioiello di famiglia. «Un prodotto buono e assolutamente unico».
Scendendo a valle fino a Lecco, per poi rientrare a Bergamo, la storia incontra l’innovazione e la visione imprenditoriale del caseificio Quattro Portoni. Qui non ci sono vacche orobiche, ma bufale mediterranee. Le bufale dove non ti aspetti. «Abbiamo dovuto lottare non tanto contro le diffidenze dei tradizionalisti, ma la difficoltà di far percepire un prodotto assolutamente nuovo», dice Bruno Gritti, che con il fratello Alfio ha raccolto l’eredità del papà Renato, fondatore dell’azienda agricola di Cologno al Serio nel 1968. Un allevamento oggi di 950 capi, e una produzione variegata di deliziosi formaggi e latticini di latte di bufale. Una alternativa alla tradizione bergamasca. Ma figlia della stessa eccellenza casearia. Di una terra che può considerarsi la capitale europea dei formaggi. Pronta ad accogliere adesso le forme di tutto il mondo.
Premi, ci sono anche le Olimpiadi dei formaggi
L’edizione 2019 di “Forme”, la manifestazione che dal 17 al 20 ottobre porta a Bergamo il meglio dell’arte casearia mondiale, ha in calendario un appuntamento internazionale che la rende unica: i “World Cheese Awards”, le “Olimpiadi dei formaggi” che arriveranno per la prima volta in Italia ospiti nei padiglioni della Fiera dal 18 al 20. Organizzati da The Guild of Fine Food, i “World Cheese Awards” da oltre 30 anni premiano i migliori produttori del pianeta, dai piccoli artigiani ai grandi brand. Al suo debutto italiano la 32ª edizione della competizione segna già i primi record con 3.804 candidati totali (+10% del precedente record 2018) provenienti da 6 continenti e un primato di 42 paesi partecipanti dalla A di Argentina alla W di Wales (Galles), passando dal Giappone, ammesso per la prima volta ai Wca. Per ripercorrere la storia di questo premio, il 19 e il 20 nel cuore della Città Alta sarà allestita la mostra a ingresso gratuito “And the winner is…” che riunirà per la prima volta, a Palazzo della Ragione, i vincitori di tutte le edizioni di World Cheese Awards.