Solinas
In un articolo apparso recentemente online su VP Plus, Vittorio Marchis scrive che «tutta la lingua è un’eccezione e ridurla a una struttura “unisex” significa credere che le lingue artificiali siano più perfette di quelle naturali ». La considerazione è rivolta ai frequenti tentativi di cambiare “presupposti” sessisti insiti nelle lingue naturali, inserendo termini “neutrali” dal punto di vista del genere. Quando parliamo di lingue artificiali, non ci limitiamo agli esempi offerti da Marchis (l’esperanto, l’interlingua sia nel senso del latino sine flexione di Peano, sia nel senso della lingua sviluppata dalla IALA, International Auxiliary Language Association, negli USA), ma dobbiamo includere anche i linguaggi formali usati in ambito logico, nonché tutti i linguaggi di programmazione. Per completare il quadro, però, occorre fare un passo indietro: sin dal XVII secolo, è stato Leibniz a immaginare una characteristica universalis, una lingua universale in grado di rappresentare tutti i concetti fondamentali della nostra conoscenza (logica, scientifica, metafisica), sulla base della quale costruire un calculus ratiocinator, un calcolo in grado di dimostrare le connessioni logiche ed evitare errori di pensiero. Il progetto di Leibniz, per lo più incompreso ai suoi tempi, ricevette nuovo impulso dagli sviluppi logici e matematici del XIX secolo, in particolare grazie a Frege. Furono poi i grandi logici e matematici degli anni ’30 del Novecento, Gödel, Turing, Church, a dare impulso a quella che oggi chiamiamo informatica, che nel nome inglese ( computer science, scienza del calcolatore) conserva una traccia più chiara dell’origine leibniziana. La crescita impetuosa dei linguaggi formali ha avuto influssi molto marcati anche sullo studio delle lingue naturali: basti citare qui il progetto, dovuto in larga misura a Chomsky, della “grammatica universale”, la teoria secondo cui ogni lingua umana è basata su una struttura cerebrale innata che elabora stimoli esterni nei primi anni di vita, per cui ogni lingua effettivamente esistente è un’articolazione possibile della grammatica universale. L’invenzione di lingue più adatte a particolari scopi non è quindi un fatto isolato, ma ci accompagna almeno dall’età moderna. Essa è affine allo sviluppo di terminologie e strutture linguistiche tipico di molte discipline tecniche e scientifiche: il caso più eclatante è quello della chimica, che grazie all’IUPAC cerca di uniformare la designazione delle sostanze, sia inorganiche sia organiche, a partire dall’inglese. Non è questo, però, il fenomeno che abbiamo di fronte. La creazione di sostantivi di genere femminile, o l’uso di desinenze come lo schwa (ə) o l’asterisco (*) per evitare attribuzioni di genere, punta a riformare l’uso della lingua per evitare un “presupposto ideologico”: un’ideologia “patriarcale” sarebbe depositata nelle lingue naturali, proprio in quelle che chiamiamo lingue “madri”. Anche in questo caso è possibile fare una storia del fenomeno: basta pensare a quanto succedeva in Italia durante il regime fascista (per non parlare delle riforme linguistiche naziste in senso ariano). Il contesto più immediato, però, è il “politicamente corretto”. Si potrebbe ricordare che qualificare qualcuno come “politicamente corretto” fino agli anni ’70 del secolo scorso aveva un senso marcatamente critico: era il modo con cui si sottolineava un’aderenza incapace di dubbio all’ideologia professata. I politicamente corretti erano quelli che per qualsiasi problema avevano la risposta conforme alla linea del Partito. Se inizialmente la frase era stata usata per i nazisti, divenne poi comune nella sinistra americana, nella quale aveva anche un senso autocritico: chiedersi se si era politicamente corretti equivaleva a chiedersi se la fedeltà ideologica aveva soppiantato il senso della storia. Per chiarire il punto forse è bene ricorrere a una citazione di George Orwell, dall’appendice a 1984: «Fine specifico della neolingua non era solo quello di fornire, a beneficio degli adepti del Socing, un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero ». I tentativi di uniformare la lingua, l’eliminazione di eccezioni e varianti sono tutti modi di ridurre quella complessità stratificata che costituisce l’essenza stessa delle lingue naturali. I tratti che le caratterizzano possono essere certo frutto di una mentalità dominante, ma è difficile individuare corrispondenze univoche e regolari. Nel riformare gli usi linguistici, può apparire che si stia svolgendo quella che viene definita “azione positiva” (affirmative action), in favore di una parte della popolazione vittima di discriminazioni. Ma è il caso di pensarci bene. In effetti l’ipotesi di riformare il linguaggio in questo modo contro un “presupposto ideologico” ne cela almeno due. Il primo: l’idea che l’uso del “maschile” indichi in modo univoco un “patriarcato” che sembra più frutto di una costruzione contemporanea che di un’articolata analisi storica. Il secondo: la convinzione secondo cui ogni strumento basato sulle idee “giuste” vada prontamente utilizzato in modo da accelerare il cambiamento positivo. Qui il modello dominante è quello del “sistema tecnico” (Ellul), di un’azione volta cioè a un cambiamento pianificato e organizzato, non a una consapevolezza storica diversa. È questo atteggiamento che porta a realizzare alcuni degli esempi citati da Marchis, come i libretti e le guide all’uso inclusivo. Ma queste soluzioni tecniche hanno problemi analoghi a quanti se ne riscontrano in altri settori, come l’agricoltura o la vita umana (con le rispettive ingegnerizzazioni biochimiche). Più che la contrapposizione tra naturale e artificiale cui fa riferimento Marchis – in fondo la solita contrapposizione tra natura e cultura – qui è in gioco un confronto diverso, tra discipline che puntano alla comprensione (anche scientifica) del reale e discipline che tentano un’ingegnerizzazione, una sistematizzazione tecnologica di quello stesso reale. Ma mentre le prime conoscono da tempo i propri limiti e, proprio in questa luce, danno piena importanza alla dimensione storica dei problemi, le seconde immaginano un reale sistematizzato e privo di quelle stramberie ed eccezioni frutto delle vicende umane. Da questo punto di vista, la ricchezza della dimensione storica non le riguarda, anzi costituisce un impedimento da instradare. Con De Certeau, si potrebbe notare che, lungi dall’essere discorsi contro il potere, queste iniziative esprimono una strategia, un disegno di potere ben preciso. La loro forza viene proprio dalla volontà di ignorare la dimensione storica – ed è irresistibile citare di nuovo Orwell: l’ignoranza è forza – ma tale forza, proprio perché scaturisce da una chiusura, rischia di essere brutale. Anche se appare ammantata delle migliori intenzioni e sembra fare appello solo alla buona volontà, al buon sentire. Del resto, concluderebbe l’autore di 1984, «la neolingua non era concepita per ampliare le capacità speculative, ma per ridurle ». E questa progressiva riduzione della capacità speculativa e critica, della capacità di comprendere a fondo il presente e il passato, pone una seria ipoteca sulla capacità di costruire un futuro diverso.