Con la maledetta crisi che corre, chi ce l’ha se lo tiene stretto. Ad altri invece, quando credono di averlo acchiappato, scivola via come una saponetta bagnata. Ma il lavoro in Italia, oggi, non è solo disoccupazione e precarietà. C’è chi si è ammalato o è morto per aver respirato polveri velenose in fabbrica o fibre di amianto nell’aria. Da Ivrea a Taranto, da Casale Monferrato alle acciaierie di Piombino e Terni, fino alle miniere del Sulcis, i ragazzi del Fareto Teatro hanno girato il Paese per raccogliere come reporter storie di lavoratori, disoccupati, cassaintegrati, pensionati, donne, giovani e cinquantenni alla ricerca disperata di un “posto”. Com’è l’Italia al tempo del Job Act? E com’era nell’età dello... sviluppo? Ne è scaturito
Buon lavoro, un vibrante viaggio nella memoria, raccontato sul palcoscenico del Teatro Verdi di Milano da Elisabetta Vergani (che ha curato il progetto con Maurizio Schmidt) e dai cinque attori della compagnia che, sostenuti dalla musica di una fisarmonica, si immedesimano con i protagonisti del dramma. Lo spettacolo (in replica fino al 15 marzo) comincia con Silvino, 91 anni, che ricorda quando entrò all’Olivetti di Ivrea, nel 1940: un’azienda modello, con il villaggio dove abitavano le famiglie dei dipendenti, l’asilo e la colonia marina gratuita per i figli, la spilla d’oro in regalo dopo 25 anni di servizio, un “padrone” attento ai suoi operai, quell’Adriano Olivetti capace di aumentare lo stipendio a chi, come Silvino, gli dimostrava di averne veramente bisogno... «L’azienda deve dare al territorio molto più di quello che riceve» diceva l’ingegnere eporediese. Altri tempi. Riccardo è di Alberobello (Bari) e tutti i giorni affronta 92 km per andare e tornare da Taranto e varcare il cancello dell’Ilva insieme con altri 12 mila operai: turni di 8-10 ore al treno dei nastri nell’industria nata “sulle ceneri” dell’Italsider: «Ho visto miei compagni toccare la diossina a mani nude e lavorare senza mascherina... nessuno dei capi gli diceva niente!». Si volta pagina, in scena stavolta c’è il lavoro “intellettuale”: adesso non basta più la laurea e, a volte, nemmeno i “master” per trovare lavoro. Monica è una ragazza di Crema (Cremona) che fa l’apprendista pasticcera nonostante i “pezzi di carta” conseguiti dopo anni di studio: un colloquio dietro l’altro, decine di
curricula spediti e l’assumono, finalmente, con un contratto a termine in un’azienda dolciaria: deve verificare la qualità della farcitura e il peso delle tortine. Sempre meglio che restare a casa. Un giorno Monica, ubriaca di stanchezza, cade prima di superare i tornelli, si fa male e prende dei giorni di malattia. La licenziano. Un rischio per certi precari. Maria è di Pistoia ma si trasferisce a Milano per fare la giornalista: poche decine di euro a pezzo per un sito online. Ma deve mantenersi e pagare l’affitto di un appartamento che condivide con altri, quindi si arrangia facendo lavori saltuari: badante, colf, cameriera, traduttrice. «Ma chi sono io?» si chiede, in piena crisi d’identità. Flessibile significa spesso... evanescente. Chiara, insegnante, due lauree, è meridionale, ma emigra al Nord, perché di cattedre disponibili in Lombardia ce ne sarebbero tante. Fa il sostegno alle Medie come supplente, per un ragazzino con problemi. Lei si affeziona all’unico alunno ma l’anno dopo deve cambiare sede: tre anni e tre incarichi in tre scuole diverse. Già, il posto fisso non esiste più. E siccome non si può fare a meno di lavorare, di sentirsi utile anche se in tasca non entra nemmeno un centesimo, va bene pure fare il volontario, magari assistendo chi il lavoro l’ha perso, il barbone che, come una “statua di dolore” chiede l’elemosina sul marciapiede e ha bisogno di un paio di scarpe, di un maglione, di una tazza di brodo caldo. «Assisto, dunque sono», come direbbero Franco e Giovanna disoccupati e volontari del Centro Santa Maria di Milano. Dopo la canzone
Il tic di Giorgio Gaber per sottolineare come l’alienazione non sia soltanto un ricordo dell’operaio che, negli anni ’60, «lavorava in quel di Baggio in catena di montaggio....», ma un’esperienza ancora presente in certe realtà, la pièce tocca le corde della rabbia e della commozione con la storia di Romana Pavesi Blasotti, la cui famiglia è stata spazzata via dal mesotelioma, il morbo causato dalla fibra d’amianto all’Eternit di Casale. In 1.800 sono stati colpiti da quel disastro rimasto impunito, altrettante storie di morte, dove la speranza non conta più.