Il primo ricordo del figlio sul padre? «Ho un flash: quando mi faceva addormentare tenendomi in braccio e passeggiando per ore e ore nel corridoio lunghissimo della casa di Borgo Pio. Non avevo nemmeno un anno…». Il primo ricordo del padre sul figlio? «Fu un incubo. Era appena nato e i medici mi dissero che aveva l’ittero, per poco non svenni. Credevo fosse una malattia esotica pericolosissima. In realtà poi scoprii che era una cosa abbastanza banale per i neonati. Bastò metterlo vicino alla finestra per fargli prendere un po’ di luce e guarire». Vederli seduti l’uno accanto all’altro a un tavolino di un bar del signorile quartiere Monteverde di Roma fa una certa impressione: la somiglianza è sconcertante, stessa barba, stesso modo di ridere, di muovere le mani, identico iniziale aplomb britannico che dura però poco, subito soppiantato da un’innata attitudine istrionica. Insomma tale padre, tale figlio, nonostante la diversa età ed esperienza: Gabriele Lavia prossimo a varcare le settantatré primavere (incredibile, per chi lo ha visto saltare di continuo come un grillo dalla platea al palcoscenico durante le prove), ha collezionato circa settanta regie, interpretato centinaia di ruoli tra cinema e teatro, in pratica con «un grande avvenire… dietro le spalle» (per dirla citando un altro indimenticabile mattatore della scena italiana, Vittorio Gassman). Lorenzo, primogenito nato dal matrimonio con l’attrice Annarita Bartolomei, classe 1972, sale sul palcoscenico a diciassette anni proprio chiamato dal padre il quale nel 1989 si rese conto che era inutile tentare di sconsigliarlo di intraprendere la carriera di attore e allora si arrese e gli affidò un ruolo nel Riccardo III. «Ma di vantaggi nell’essere figlio d’arte davvero nessuno», tiene a precisare Lorenzo. «Anzi», conferma papà Gabriele. E in effetti nel 2011, quando Gabriele Lavia prese l’incarico di direttore artistico del Teatro di Roma, Lorenzo decise di non accettare più lavori col padre: «Non volevo farmi parlare dietro e così feci una scelta radicale e dolorosa, ma ne sono fiero». Comunque la sua carriera non ne ha risentito e, oltre a essere prolifica e rilevante anche al cinema (notevole il successo nelle sale lo scorso anno con Smetto quando voglio), c’è stato nel 2014 anche il debutto nella regia teatrale con Il vero amico di Goldoni. Ma non mancano le differenze tra padre e figlio: «Io amo i tatuaggi e i cani – sottolinea Lorenzo –, lui decisamente no». La poesia invece crea un ribaltamento spiazzante: Gabriele notoriamente la adora (una in particolare conserva scolpita nel suo animo: Solitudine di Emily Dickinson), Lorenzo la rispetta ma la tiene a debita distanza. Riconosce, però, che molti sono gli insegnamenti ereditati dal padre: «Come regista mi ha insegnato cosa fare e soprattutto cosa non fare! Come padre...». «Pessimo padre», in- terviene subito Lavia senior, che diventa un fiume in piena: «È un lavoro bello ma tremendo, il nostro; chi fa teatro ne è risucchiato dentro, specie per chi come me non ha fatto lo scritturato, a parte i primi anni con Squarzina, Strehler, De Bosio». Gabriele Lavia si lancia in un monologoflusso di coscienza e sembra non nutrire dubbi a riguardo: «Questo non è un mestiere normale. Fare il regista e l’interprete è arduo, sei invischiato ventiquattr’ore su ventiquattro. Sconsiglio a un attore e a un regista di sposarsi e avere figli». Davanti a questa affermazione il primogenito Lorenzo – che, conoscendo la paterna enfasi retorica, ha ascoltato sornione e paziente – decide di intervenire prontamente: «Tutto falso Lui si è sposato, ha fatto figli ed è stato un grande padre, sia con me che con le mie sorelle. Dopo aver dato tutto per quattro-cinque ore su un palcoscenico in una qualunque parte d’Italia, si metteva in macchina e di notte affrontava altre quattro-cinque ore di viaggio per raggiungerci, abbracciarci, stare con noi. Non credo sia una cosa scontata, né tanto meno da pessimo padre». E in caso di bisogno anche il figlio Lorenzo farebbe la stessa cosa per il padre Gabriele, senza ombra di dubbio. «Sì, confermo – annuisce il papà –, in questo lui è migliore di me». Ma ancora una volta puntuale la smentita del figlio: «Non è vero. Lui è instancabile, insostituibile come genitore. Abbiamo tutti bisogno di lui, gli chiediamo qualunque consiglio». E in effetti la conversazione viene interrotta dalla telefonata di Lucia (la più piccola, avuta dall’unione con Monica Guerritore) che al padre confida ogni cosa: «Adesso mi ha chiamato Lucia – svela Gabriele – perché non vede l’ora di raccontare di ieri». Sorride e conferma Lorenzo: «Le mie sorelle sono molto espansive, dicono quello che pensano, quello che fanno ». Divertito e compiaciuto, il capofamiglia aggiunge: «Sì, mi chiedono di tutto… papà cosa mi metto? Il vestito lungo nero o quello corto a fantasia?». Approfittando di questi svelamenti familiari confidenziali si viene a sapere poi che il dolce preferito di Lorenzo Lavia è il mont blanc, che quello di Lucia è la torta mimosa, che «invece papà predilige i salati»... Per evitare il facile e scontato crinale di un commiato alla tarallucci e vino si passa agli imminenti impegni. Molteplici per il padre: il debutto il 6 ottobre al Carignano di Torino con Vita di Galileo dal testo di Bertold Brecht, la ripresa dei Sei personaggi in cerca d’autore, la regia di un’opera lirica e un sogno nel cassetto, l’allestimento di una commedia del grande Eduardo. Meno affastellati e fitti quelli del figlio: il sequel del film Smetto quando voglio e uno spettacolo nella prossima stagione ricco di prospettive, ma povero di investimenti per il momento. Proviamo allora a sondare un’altra ricchezza, quella dell’eredità morale che il padre ha consegnato al figlio: «Un solo consiglio prezioso gli consegno – confida seriamente papà Gabriele –, lo stesso che mi donò Orazio Costa: il regista ha un solo motto, ovvero “non consiste in questo”. Nel senso che nulla è importante, più sottrai, più ti semplifichi la vita. Il regista deve essere invisibile». Lorenzo Lavia ha ascoltato in rispettoso silenzio ma nel salutare il padre, indicando un’auto nera di grossa cilindrata, dimostra un’ironia pari al suo affetto: «Ma almeno questa me la lasci in eredità?». «Ma certo», replica con prontezza di spirito il padre, che aggiunge amaramente: «Tanto in tournée non ci andrò, più grazie alla nuova riforma del teatro». E qui il volto del maestro avvezzo a far risuonare tutte le corde dell’animo umano si colora improvvisamente di un cupo e monocorde pessimismo.
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