Martin Watts e suo figlio Joey
Giorni fa ho visto una fotografia che mi ha commosso. Racconta di un episodio semplice di una famiglia semplice, nel Nord dell’Inghilterra. Nella foto si vedono Martin Watts e suo figlio Joey, un bambino di sei anni che aveva subito da poco tempo una complessa chirurgia cardiaca.
L’intervento aveva lasciato sul suo petto una cicatrice lunga un palmo. Quando Joey la vide per la prima volta, domandò se era lì che lo avevano tagliato per aggiustargli il cuore. I genitori gli spiegarono che non doveva avere paura, che lui era un piccolo grande lottatore, che loro provavano grande orgoglio per il suo coraggio, e che la sua cicatrice simboleggiava tutto questo. Anche per il lottatore più coraggioso, però, può essere difficile portare le proprie ferite, e a sei anni di età gli occhi impotenti di Joey gridavano questo.
Passato qualche giorno, Martin Watts decide – con la complicità della moglie – di fare una cosa che mai gli era passata per la testa: un tatuaggio. Si sarebbe fatto tatuare sul petto una cicatrice, identica a quella del figlio. In effetti, il tatuaggio realizzato riproduce con grande realismo il lungo taglio verticale arrossato, con doppia cucitura, come si può constatare dalla foto in cui posano entrambi. Vi si vede il padre abbracciare il giovane figlio convalescente, e il sorriso dell’uno sostiene, protegge e dilata il sorriso dell’altro.
L’amore si distingue per questa volontaria e infinita capacità di rendere meno solitari i pesi, i colpi, le disavventure e le ferite con cui la vita si esprime in noi. E in un tempo come il nostro, in cui sembra crescere l’incertezza riguardo all’umano, e si dibattono – come fossero indefinite – la natura e le frontiere della nostra umanità, è importante prestare attenzione alla inamovibile verità dei gesti elementari d’amore che ci fondano, per cogliere il significato di ciò che noi siamo. Oggi, per esempio, conviviamo e interagiamo con molte macchine: dai vecchi frigoriferi ai computer, dai telefonini ai bancomat alle porte automatiche o ai droni. Nella nostra quotidianità è ormai integrato tutto uno smisurato apparato tecnologico.
Non solo. Si sta avvicinando, giorno dopo giorno, un nuovo tornante, quando le macchine saranno programmate per interagire con gli umani asseritamente nello stesso modo con cui noi umani ci relazioniamo gli uni con gli altri. Si comincia a parlare, in un gergo che spinge per divenire lingua corrente, dei robot come di “esseri viventi non biologici”, e si avanza sperimentalmente verso la cosiddetta “robotica sociale”, con la pretesa di vederla slittare dall’ambito dell’ingegneria al campo specifico della socializzazione umana. Non c’è bisogno di essere degli specialisti per capire che qui si erge una montagna di questioni etiche.
Ma è curioso il modo in cui la “nuova ecologia sociale mista” tenta di dirimere i dubbi fondamentali che insorgono in ognuno di noi. A cominciare dal sapere se è accettabile affidare persone in stato di vulnerabilità – bambini, anziani o ammalati – alle cure di “operatori artificiali” progettati non solo per espletare mere azioni tecniche ma per creare anche una dipendenza morale e affettiva di sostituzione. I più entusiasti parlano di “empatia artificiale”, con l’argomento che ovviamente non si può (ancora) chiedere alla macchina di provare emozioni, ma si può sperare che l’operatore artificiale registri le emozioni del suo interlocutore umano e adegui positivamente la sua risposta. Si dice che l’ultima frase scritta da Fernando Pessoa sia stata: « I know not what tomorrow will bring » (“Non so cosa mi porterà il domani”). In questa svolta epocale, possiamo ripeterla tutti. Ma ci sono cose – lo sappiamo bene – che ci distinguono, e ci distingueranno, come umani. Tra esse, l’arte di riparare, attraverso l’amore, le cicatrici più irreparabili.
(Traduzione di Pier Maria Mazzola)