Donne forti e uomini deboli. La fatica e l’inganno. C’è uno specchio sull’acqua che rimanda immagini opposte: Alex che bara, Josefa che rema. «Mi è venuto da piangere quando ho saputo di Schwazer: è un lutto per tutto il nostro sport…», dice la ragazza infinita. Una frase, un riassunto. Il senso di tutto. È fosco il risveglio sul fiume dorato: Londra gonfia di nubi scure, l’Italia sportiva depressa e stropicciata dentro. Perché il doping lo senti in bocca, anche se lo prende un altro. Paralizza, deprime. E lascia un cattivo sapore. La positività del marciatore azzurro è diventata una palla di ferro al piede dell’Olimpiade italiana. Ha distrutto il morale, ha allungato le distanze tra il podio e l’oblio di una spedizione che non ha più voglia di sorridere. Nemmeno lei riesce a farlo, eppure è il giorno di un altro trionfo personale. Josefa Idem ha 47 anni, non 27 come Schwazer. E l’Olimpiade ce l’ha nelle vene. Solo quella, non come Schwazer. Ne ha fatte otto, nessuna come lei. Due sotto la bandiera tedesca, le altre con quella italiana. Che ha adottato un mito senza scadenza. Ha partecipato, ha vinto, senza mai dire basta. Senza aiutarsi: due remi la sua droga, solo quelli. Da Los Angeles 1984 spinge la canoa all’alba sul lago, mangia nebbia e umidità. La fatica è il suo divertimento, gareggia contro rivali che potrebbero essere sue figlie. Come Janek e Jonas, 17 e 9 anni, che domani sull’acqua nobile di Eton vedranno la loro mamma inseguire un’altra medaglia. Difficile, quasi impossibile. Quasi. Ieri, intanto, Josefa ha aggiunto un sassolino alla strada che ritrovano solo i più grandi dello sport, conquistando con il settimo tempo assoluto la finale del K1. Cinquecento metri di adrenalina pura, braccia e polmoni. «Sono andata oltre ogni limite personale, mi sono lasciata trasportare dall’entusiasmo della folla – dice alla fine –. Tifavano la loro Rachel Cawthorn, che ha 23 anni. Hanno spinto la sua gioventù, e anche me». Ma non riesce a gioire. Pensa ad Alex Schwazer, «al dramma – dice – che quel ragazzo sta certamente vivendo. Più ci ragiono e più sono triste. Lo ripeto, quello di oggi è un lutto per tutto lo sport italiano, perché lui era un’immagine positiva, un bel volto azzurro. Mi chiedo cosa può averlo spinto a fare una cosa del genere. Speri sempre che ci sia un errore, ma poi ho visto che lui stesso ha ammesso tutto, e allora dico solo: ma come si fa a rovinarsi così?». Una domanda, troppe risposte. False pure quelle. Alex Schwazer come mille prima di lui. Si dopano perché rivogliono il loro infinito. Quella parte di specchio che non riflette più. Non solo soldi, gloria, avventura. L’inganno serve per annegare il declino. Perché, come dice David Beckham: «Io voglio giocare per sempre». Si dopano perché non si scende mai dal proprio mito, al massimo ci si inciampa, contenti che sia ancora lì tra i piedi. A illuderti che se vinci esisti, e che se perdi non esisti più. Invece guardi la Idem e comprendi che lo sport è un’altra cosa. Ventotto anni dopo la sua prima Olimpiade, lei è ancora lì, fiera e con gli occhi avanti. Guai a chiederle: signora, è stanca? Con Josefa non si può. Esistono donne così, un po’ Sturmtruppen, che non si staccano, che stroncano avversarie e apatie. Gli anni passano, lei resta. Rallenta magari, ma non spreca un attimo. Un esempio per tutti? Lo è certo, ma come fai a dirtelo proprio oggi, dopo un altro colpo al cuore? «Io sono sempre stata molto attenta al mio fisico, non prendo nemmeno erbe naturali. È l’unico modo per durare nello sport…». Le credi, devi crederle, vuoi farlo perché conosci la sua storia pulita, assorbi la sua voglia e vorresti che fosse quella di tutti gli altri. Perfino suo marito, Guglielmo Guerrini, che è anche il suo allenatore, una mattina d’inverno alle 7, in mezzo al buio e alla voglia di caffè, mentre lei si cambiava in macchina per andare in canoa, le ha chiesto: «Mi spieghi che piacere è il tuo?». Già, che piacere è? Josefa ti fulmina subito con i suo italiano energico e risponde: «Lo sport è concretezza. Non aria fritta. Ti dà subito la tua misura, questo mi piace. È adrenalina, è forza, è strappare un traguardo. Io ne ho ancora voglia, mi piace. Il brutto è che oggi nessuno si fida più dei successi, appena vinci tanto tutti cominciano a dubitare…». Questo è lo sport purtroppo: il sospetto la sua zavorra, la leggerezza la sua uscita di sicurezza. Ventisei medaglie tra Mondiali e Olimpiadi, mai una parola sullo stress, sul sacrificio di allenarsi, sul triplo lavoro: madre, moglie, atleta. «Venivo da due anni schifosi – racconta ancora Josefa – e avevo tanti brutti pensieri. Poi mi sono detta, sono tutte menate. Ho letto che Jessica Rossi prima di vincere l’oro nel tiro a volo l’altro giorno, aveva dormito tranquillisima e ho pensato: se ci riesce una ragazzina, perché non posso farlo io che ho 48 anni? Così in acqua la mia canoa filava leggera, ho provato la stessa sensazione di quando avevo 15 anni…». C’è ancora una gara da remare, la prossima. Forse non ci sarà un’altra estate di gloria, perché lo sport è più crudele dei capelli bianchi: vuole tempi, non poesia. Ma quando si arrenderà, è certo che Josefa Idem lo farà sorridendo. Ci vuole una vita per arrivare sul podio e solo due gradini per salirci. Scenderci da donne forti è sempre più bello che restarci da uomini deboli.