La lingua più universale, si sa, è quella che si parla su un campo di calcio. E questo “esperanto” del pallone lo conoscono e lo parlano molto bene a Porcen, piccolo borgo del bellunese (400 abitanti) con un campetto adagiato ai piedi del Monte Grappa. Qui, dove un secolo fa italiani e austroungarici si massacravano a colpi di baionetta, durante la settimana e alla domenica si ritrovano assieme ai fratelli provenienti dal “mondo intero” per giocare nella stessa formazione. «La nostra squadra, la Porcenese, è nata due anni fa da un’idea mia, del ds Manuel Marzano e dell’allenatore Matteo Ventimiglia, con lo scopo principale di diventare oltre che un polo sportivo anche quello dell’accoglienza per i tanti stranieri che vivono e lavorano in zona», spiega il presidente del club, il 27enne Marco Zanella. Dal 2011, così, gli amatori della Porcenese si sono iscritti al campionato Csi. E tanti dei suoi giocatori sono passati dai campi agricoli («come stemma abbiamo scelto apposta la spiga di grano») a quelli di calcio. La colonia degli extracomunitari è il nucleo della squadra che conta 13 nazionalità diverse. «La multiculturalità è stato un obiettivo prima che diventasse il nostro vanto. La vittoria più importante? Aver accolto stranieri in difficoltà, senza fissa dimora, con problemi di integrazione e anche rifugiati politici». Tre i rifugiati politici, arrivati in Italia, a bordo dei barconi, in fuga dalla Libia, se ne sono andati da poco in altri centri di accoglienza, ma non hanno trovato un’altra Porcenese. «Erano il camerunense Alì, Ibrahim del Sudan e poi Lamin, sul quale in Gambia pendeva una condanna a morte in quanto figlio di un acceso oppositore del regime militare. Siamo ancora in contatto con tutti e anche un po’ preoccupati per Lamin che se venisse rimpatriato andrebbe incontro a un tragico destino», dice accorato il presidente Zanella che sta andando al campo dopo un giorno di lavoro all’ufficio commerciale della Oros. Un quotidiano comune alla maggior parte dei 35 della rosa dei gialloblu della Porcenese che si presentano agli allenamenti dopo la scuola o il lavoro. Per alcuni, poi, il lavoro scarseggia come a Eduart detto “Biku”, albanese, che con mille sacrifici aveva messo in piedi una piccola impresa edile. «La squadra svolge anche una funzione di mutuo soccorso – dice il mister Ventimiglia – . Cerchiamo anche di sistemarli con impieghi di fortuna, ma purtroppo la crisi economica non ha risparmiato neppure il nostro Nordest. Abbiamo ragazzi disoccupati con tre-quattro figli a carico e così, tutti assieme ci autotassiamo per garantire almeno dei sussidi alimentari alle famiglie in difficoltà». Miseria e nobiltà di un collettivo unito, autofinanziato «con fatica» (circa 3mila euro l’anno per la gestione, 560 euro di iscrizione al campionato), in cui ognuno professa liberamente la propria fede religiosa («ci sono cristiani, musulmani, buddisti e anche un agnostico»), ma tutti sono devoti al “dio pallone”. «Facciamo semplicemente quello che chiede Gesù, aiuta il prossimo tuo – dice convinto il presidente Zanella –. Il nostro miglior talento? Il gruppo, con la sua passione e la voglia di stare insieme prendendo i 90 minuti come puro divertimento e il campo come un’oasi riparata dai problemi di tutti i giorni».Una società che sogna di «diventare una Polisportiva», ma intanto condivide una passione che in campo va dal più “grosso”, la “Pantera Rosa”, «per via del colore della maglia», il portiere Alvaro, al più piccolo, il «16enne Pino, lo slovacco tornante di destra», fino al più “vecio”, «Giovanni, centrocampista d’esperienza, con i suoi 38 anni». Alla Porcenese prima dei tre punti (sono ottavi in classifica), viene il rispetto dell’avversario. «Stavamo perdendo 5-4, quando il nostro “Papi” palla al piede si è fermato per soccorrere un ragazzo dell’altra squadra che aveva avuto un attacco epilettico. Siamo usciti sconfitti, ma intanto il “Papi” ricacciandogli fuori la lingua gli ha salvato la vita». Il massimo del fair-play, che non sempre viene ricambiato. «Un nostro ragazzo di colore tempo fa ha subìto un episodio di razzismo: l’avversario gli ha gridato “negro di m....”. L’arbitro era lì a due passi, ha sentito e l’ha espulso. Ma la beffa è stata quando abbiamo letto il referto: “Espulso per un fallo di gioco”. Una vergogna...». Amarezza addolcita almeno in parte dalle testimonianze di solidarietà giunte dagli altri club, quelli che in caso di vittoria o di sconfitta a Porcen, a fine partita, sono puntualmente ospiti dello sponsor. «Al triplice fischio, si va tutti all’osteria La Pergola. Un po’ di salame e un bicchiere di Grinto non si nega mai a nessuno».