La pazienza delle donne, l’umiltà di chi ha creduto e crede ancora in uno «sport pulito», fatto di «sacrifici nel tempo, che è galantuomo e alla lunga ripaga», lo ritrovi negli occhi materni e nelle parole calme dell’unica vera signora dello sport italiano, Sara Simeoni. L’atleta del secolo, «quello passato», sorride, è nata 60 anni fa, li compie il 19 aprile. Da sempre la Sara nazionale vive in questo paesino, Rivoli Veronese, sospeso tra le colline di Bardolino e il Forte Wohlgemuth, la fortezza che il federmaresciallo Radetzky aveva fatto costruire per difendere i confini austriaci. La fortezza della Simeoni è la grande casa di famiglia, il rifugio che divide con il marito e suo ex allenatore Erminio Azzaro e il loro figlio Roberto: una piccola tribù di saltatori in alto. Già, il salto in alto, quell’eterna sfida nell’alzare sempre un po’ di più l’asticella tra il possibile e l’impossibile, da noi l’abbiamo scoperto grazie a questa gazzella dal cuore di leonessa. «Pure per me fu una scoperta. Avevo 13 anni e a Verona a un campo scuola saltai 1 metro e 35 centimetri. Era la migliore prestazione italiana e tutti attorno a me in estasi, mentre io pensavo: boh cosa avrò fatto?». Erano i primi tentativi di spiccare il volo, salti a “forbice” con ricadute dolorose. «All’epoca c’era d’aver paura, era come fare il trapezista del circo senza la rete sotto. Si ricadeva sulla buca ricoperta di sabbia, poi su materassi duri come il marmo. Schiena a pezzi, tutto un livido, avevo appena iniziato che stavo già per dire basta». E invece la ragazza della Scala Azzurra, «la mia prima squadra», stava andando incontro alla leggenda sotto la guida del maestro Walter Bragagnolo. Nel ’69 comincia a sperimentare il nuovo stile, il Fosbury. Lo scavalcamento di schiena che aveva inventato «per un movimento ventrale sbagliato», un ingegnere americano, Dick Fosbury, oro e record olimpico (2,24 m) a Messico ’68. La Simeoni debuttò nell’edizione seguente, i Giochi di Monaco ’72, la prima delle sue quattro Olimpiadi. «Solo per il fatto di esserci mi sentivo come Alice nel paese delle meraviglie, perciò quell’1,85 e il 6° posto fu come aver vinto l’oro». Quello, l’oro, se lo mise al collo la tedesca Ulrike Meyfarth che con i suoi 16 anni e 123 giorni divenne la più giovane campionessa olimpica dell’atletica leggera. E la baby-fenomeno Ulrike, con l’altra tedesca Rosemarie Ackermann che gareggiava per la Ddr, divennero le avversarie di una vita. «La Meyfarth era una alla Merkel, quando ti passava davanti ti ricordava fiera che lei era una grande tedesca e tu una povera italiana - sorride ripensandoci -. La Ackermann era più gentile, ma ci salutavamo appena, come tutti gli atleti della Germania dell’Est viveva segregata e controllata a vista». Tempi di cortina di ferro e di terrorismo cupo che rivendicando l’attentato di Monaco si firmava “Settembre Nero”. «Della tragedia, degli atleti israeliani uccisi, io e Erminio che intanto era diventato il mio allenatore, ci rendemmo conto solo al mattino: niente musica dagli altoparlanti della mensa del Villaggio e quell’atmosfera di euforia contagiosa di colpo si era fatta silenzio e tristezza. Quel giorno non volava una mosca...». Sara invece a Mosca ci volò, «l’anno seguente, 1973, vinsi la mia prima medaglia importante, bronzo alle Universiadi». Ai Giochi di Montreal ’76, era ormai più di una speranza azzurra e l’asticella si alzò fino a 1,90: argento dietro alla Ackermann. Cominciò da lì un duello fantastico tra due ragazze avversarie nella ricerca ossessiva del primato, ma unite da un sogno: «Superare il muro dei due metri». E la prima a farcela, salendo fino a 2,01, era stata la ragazza di Rivoli. Quel salto epocale lo fece a due passi da casa, Brescia 6 agosto 1978. «Dissero che era stato un record al “buio”. Per forza, mica come adesso che ci sono telecamere piazzate anche sotto le docce degli spogliatoi, quella sera non ce n’era neppure una. Per fortuna che venti giorni dopo agli Europei di Praga riuscì a ripetere quel salto e a battere la Ackermann…». Quella rimane la “gara”, con la tedesca che si arrese (sull’1,99), «mentre io al terzo tentativo stavo per superare i 2,03...». Qui cade l’asticella del ricordo e la gazzella Simeoni si fa leonessa. «Se mi fossi comportata come hanno fatto tanti atleti, anche della nostra Nazionale, avrei saltato ancora più in alto... Ma oggi non potrei guardarmi allo specchio. E come me la pensava il mio amico Pietro». Pietro è Mennea che ha appena compiuto l’ultimo scatto: destinazione paradiso. Assieme alla Simeoni hanno scritto l’ultima pagina a caratteri d’oro dell’atletica leggera italiana, Olimpiadi di Mosca 1980. I Giochi del boicottaggio americano per l’invasione russa in Afghanistan, divennero di colpo quelli della smorfia di dolore vincente di Mennea, 1° al traguardo dei 200 e del pianto di gioia - sullo scalino più alto del podio - della Simeoni che invece dell’inno di Mameli cantava
Viva l’Italia di De Gregori. «Ho sempre avuto il pianto facile, ma ho versato tante lacrime di felicità per quante vittorie ho conquistato per l’Italia. E l’ho fatto fino all’84 con l’argento di Los Angeles. Una volta smesso, avrei voluto continuare a dare tanto al nostro sport, ma a me e a Pietro non l’hanno permesso. L’allora presidente della Fidal, Primo Nebbiolo, diceva che in popolarità io e Mennea eravamo diventati come Mazzola e Rivera nel calcio e c’eravamo riusciti con i successi, con il sacrificio e mettendoci sempre la faccia, anche quando stavamo male. Ma non è bastato per ottenere un minimo di riconoscenza. Forse perché eravamo ingombranti? Non l’ho ancora capito...». Mennea almeno si era rifatto con la politica, da europarlamentare. «Ma mai stati “rivali alle elezioni”, come canta Samuele Bersani - sorride - . A me da Forlani fino a Berlusconi, tutti hanno chiesto di candidarmi, ma resto una di campo. Le quote rosa mi fanno ridere, nella politica come nelle federazioni sportive, le donne capaci vanno utilizzate nei posti dove servono e non per fare numero. Ho aspettato anche a fare un figlio quando gareggiavo, adesso non so come fanno queste ragazze che sono mamme, atlete e riescono anche a trovare il tempo per andare in televisione, fare la pubblicità e persino a farsi eleggere in Parlamento. Saranno mica bioniche?». È il ruggito della leonessa che torna gazzella dagli occhi dolci appena Erminio e Roberto aprono la porta di casa e la tribù dei saltatori in alto si abbraccia con uno sguardo d’intesa. «Avevamo messo in piedi un progetto di promozione dell’atletica e giravamo per le scuole di tutta Italia, ma siccome funzionava e pagavamo di tasca nostra, c’hanno fermati... Quando mi chiedono delle mie “eredi”, della Trost e della Di Martino, mi dispiace perché saranno anche brave, ma le conosco appena. La mia eredità sono le esperienze vissute che vorrei ancora donare ai giovani. Ma per arrivare alla pensione devo insegnare Scienze Motorie all’Università di Chieti, mentre mi piacerebbe tanto dedicarmi e veder crescere le nuove generazioni della nostra atletica che per “rinascere” ha solo bisogno di allenatori che siano prima di tutto dei formatori per i ragazzi che non hanno più punti di riferimento». Non si arrende la Simeoni, si stringe forte alle sue colonne, Erminio e Roberto, e quando saluta dalla porta della loro fortezza è come se fosse rimasta sempre lassù, in cima al podio di Mosca che canta: «Viva l’Italia con gli occhi aperti nella notte triste, viva l’Italia, l’Italia che resiste…».