«Iricordi più belli li conservo delle partite giocate a Cuba, in Perù, in Kenya. Fu bello scoprire che nel cuore dell’Africa nera i bambini conoscevano “Pablito” Rossi e fu una gioia portare loro, che giocavano scalzi, tante scarpe e palloni, oltre a medicinali e medici volontari». Sono i ricordi di Gian Battista Fabbri, il Gibì delle panchine «ho allenato una ventina di squadre dalla A alla C», il figlio della “Gialda” del Poggetto (frazione di San Pietro in Casale, Bologna) che martedì 8 marzo spegnerà 85 candeline nella sua casa di Ferrara. Un eroe antico del calcio di poesia, «settimo di otto figli», Gibì prima del pallone ha fatto il manovale «per mio fratello Gianni». Poi è stato contadino e infine poeta del gol, «ho giocato in tutti i ruoli, tranne portiere», da Cento a Ferrara, fino a diventare l’allenatore rusticano - tuta “operaia” durante la settimana, giacca e gilè alla domenica - , del Vicenza capolavoro: il Lanerossi che nella stagione 1977-’78 tenne testa fino alla fine alla Juventus di Trapattoni. Il Vicenza del calcio totale, frizzante come lambrusco: la squadra dei Carrera, dei Filippi e i Faloppa, in cui brillava la stella del suo “quarto figlio” («insieme ai miei tre “dottori”, Elena, Giorgio e Giulio») Paolo Rossi. Una vita tutta campo, casa e chiesa: «Lì ci vado ancora tutte le domeniche con mia moglie Irene. Prego, cerco sempre di far del bene, ma non sono di quelli con le spille sotto alle ginocchia...».
Nel suo libro, “Gibì una vita di bel calcio” (Bacchilega Editore) nel sottotitolo lei ha scritto: “Lo sport è poesia e divertimento, armonia e amore”. Conferma il messaggio?«Anche il “re del calcio”, Pelè, la pensa così. Sto leggendo il suo libro, Pelè sottolinea che “bisogna produrre calcio e dare del tu al pallone”. Oggi ce ne sono troppi che corrono e basta e a questo benedetto pallone fanno fatica anche a dargli del lei».
Sta dicendo che il nostro calcio è molto più anziano di Fabbri?«Da noi la storia si studia poco, ma io nel ’57 già giocavo come l’Ajax e l’Olanda di Michels degli anni ’70. Undici attaccanti e undici difensori, portiere compreso: tutti in grado di saper fare gol e di tornare a difendere. Qui ora siamo rimasti indietro in tutti i sensi: difesa, difesa e poi speranze affidate al contropiede. E appena uno si permette di fare delle variazioni sul tema e perde due partite di fila lo rovinano».
Qualcuno dice che lei è stato l’antesignano del sacchismo.«Ad Arrigo Sacchi l’ho anche detto in faccia: con quel Milan hai vinto un campionato, ma ne ha persi tre. A me il Milan, senza tutti quei campioni che aveva Sacchi, volevano darmelo dopo il 2° posto con il Vicenza. Rivera mi faceva telefonare da Bigon, ma io per l’affetto che mi legava alla squadra e alla gente di Vicenza gli mandai a dire che per andare mi dovevano intitolare lo stadio di San Siro».
A traslocare dal Vicenza al Milan ci pensò il presidente Giussy Farina. Che rapporto è stato il vostro?«Abbiamo avuto il merito di realizzare un sogno. Il“Real Vicenza” ci chiamavano. Alla domenica 34mila spettatori al Menti, 3mila tifosi fuori dallo stadio in attesa del boato per un nostro gol. Poi Farina ha voluto fare il furbo. Per monetizzare diede via Filippi e Lelj e il giocattolo Vicenza si incrinò, per poi rompersi del tutto con la cessione di Paolo Rossi al Perugia».
Quando si ritrovò davanti il ventenne Paolo Rossi che cosa ha pensato?«Farina, che solitamente di calcio ne capiva, mi disse: “Gibì vedi un po’ tu, secondo me sto Rossi è un bidone, ha pure i menischi rotti...”. A me l’avevano venduto come ala destra, ma vedendo quello scatto negli ultimi metri alla seconda di campionato decisi di provarlo centravanti. Da quel momento non smise più di segnare. Ma al di là dei gol e di quello che ha vinto in carriera, Paolo per me è sempre stato un campione del mondo di intelligenza e sensibilità».
Oltre alle sue, Rossi ha fatto anche le fortune azzurre di Enzo Bearzot, che incredibile a dirsi, lei ha allenato.«Ho avuto Bearzot giocatore dal ’59 al ’63, al Torino. Con Enzo cominciò con una sgridata. Durante la corsa d’allenamento rimaneva indietro con Virgili, allora davanti a tutti gli dissi: tu sarai il più “vecio”, ma qui per me siete tutti uguali. Non ha mai dimenticato quella mia piazzata, ma siamo rimasti amici per tutta la vita».
Dopo il ct Bearzot ha avuto come allievi tanti dei futuri migliori allenatori: Capello, Reja, Ranieri, Del Neri, Mazzarri e Delio Rossi.«Fabio Capello è il caso in cui l’allievo ha superato nettamente il “maestro” - sorride - . Fabio era già un tecnico in campo, quando giocava, e dopo l’allenamento a volte andava a prendere all’asilo mia figlia Elena. Reja è un uomo vero, così come Ranieri, sempre pacato ed elegante: Juve e Roma non l’hanno capito. Lo stesso posso dire di Zamparini (l’ho avuto come presidente a Venezia) nei confronti di Delio Rossi. Mazzarri era un “nervosetto”, con me alla Reggiana voleva giocare sempre, io gli dicevo:
sta bòn verrà il tuo turno. Adesso a Napoli è arrivato il suo momento, farà una grande carriera».
Il più bel complimento ricevuto nella sua lunga carriera?«Me lo fece Gianni Brera quando venne a vedere il Vicenza vincere a Marassi contro il Genoa. Alla fine scese nello spogliatoio e mi disse: “Non pensavo che in provincia si potesse giocare un calcio così bello”...».
Nelle sue squadre bandiva il “regista”, però alla Spal schierava Ezio Vendrame.«E giocava da Dio, Vendrame era un poeta. Gli dicevo: Ezio tu suoni la chitarra, io prendo un cesto e andiamo per le piazze, magari tiriamo su più soldi che con il pallone. Lui di soldi poteva farne tanti, ma, senza presunzione, a fregarlo è stato non l’aver più trovato un altro Fabbri disposto ad ascoltarlo».
Ecco che viene fuori il “mister-papà”, comprensivo e tollerante.«Ho sempre lasciato le briglie lente ai miei ragazzi. Quando Farina voleva far tagliare i capelli a Filippi, perché erano troppo lunghi, convinsi il presidente dicendogli: “E se questo è come Sansone e poi smette di giocare bene?”. Certo adesso i giocatori con tutti questi tatuaggi stampati fino al collo esagerano un po’, quando saranno vecchi come me, passeranno il tempo a cancellarli».
C’è qualcosa che cancellerebbe del suo percorso sportivo?«Rifarei tutto, anche gli errori. Il calcio mi ha dato tanta gioia, io ho sempre riso anche delle sconfitte. Anzi l’unica volta che mi sono sentito triste è stato quando con il Catanzaro (serie C) abbiamo battuto in coppa Italia l’Udinese 2-1. Ero dispiaciuto, perché avevamo sconfitto il grande Zico, uno che ai compagni metteva la palla al millimetro».
Nella sua biografia, ricorda lo spavento da bambino per un furto subito in casa, i ladri che spararono e ferirono suo padre. Di cosa ha paura oggi Gibì?«Della troppa violenza che c’è in giro. Ho pianto tanto per la piccola Yara. Le mie nipoti (Ginevra, Alessia, Elettra) che hanno quasi la sua età, sono il bene più prezioso. Quando le vedo, penso che è stato bello arrivare fin qua per guardare negli occhi il futuro».