L’istituzione da parte del governo del Museo del Ricordo, in vista della Giornata che si celebra domani per fare memoria delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, è un’occasione per completare una memoria condivisa degli orrori del secolo scorso che l’Italia si è lasciata alle spalle con la Costituzione che ripudia la guerra. Senonché l’esultanza unilaterale che la ha contrassegnata sembra riproporre lo schema ormai consolidato invece di una memoria divisa, “a foglia di carciofo”, in cui ognuno si cura la parte, e nemmeno tutta, ritenuta più funzionale alla propria propaganda di parte - la Resistenza e la Shoah di là, le foibe e l’esodo di qua - e a denunciare le colpe altrui. In questo caso le colpe altrui sono note e consistono nel doppio registro seguito dalla parte comunista del movimento partigiano, prima di accettare, con tenaci resistenze, il patto costituzionale. I casi più noti sono il cosiddetto Triangolo della morte, che insanguinò l’Emilia ben oltre la fine della guerra, e l’eccidio delle malghe di Porzûs, in cui furono trucidati 17 partigiani della Brigata Osoppo ad opera della Brigata Garibaldi, in cui persero la vita anche il fratello di Pierpaolo Pasolini, Guidalberto, e lo zio, omonimo, del cantautore Francesco De Gregori. Segno eclatante, quest’ultimo, della scelta operata sul fronte orientale dai partigiani di fede comunista di privilegiare la comunanza ideologica con i partigiani di Tito rispetto alla appartenenza nazionale.
Ma far leva su queste evidenze storiche, sul versante opposto, per lasciare intendere, sotto sotto, che il fascismo «ha fatto anche cose buone», o ha parteggiato in talune zone anche dalla parte giusta, sarebbe un errore grossolano, mirante a cancellare gli orrori di cui il fascismo si è macchiato, soprattutto dopo l’occupazione militare di vasti territori di Croazia, Slovenia e Dalmazia a seguito dello sfondamento operato dalle forze dell’Asse. I casi più eclatanti - a voler tacere dell’italianizzazione forzata a tutti i livelli, dalla scuola all’anagrafe, operata a danno delle componenti slave - sono l’eccidio di Podhum (centro raso al suolo e dato alle fiamme dai militari italiani, al pari delle borgate limitrofe, con la fucilazione sul posto di un centinaio di civili, e la deportazione degli altri, anziani, donne e bambini e persino animali) e il campo di deportazione dell’isola di Arbe in cui furono reclusi migliaia di slavi, di cui circa 1.500 furono lasciati morire di stenti. «Sarebbe però sbagliato - sostiene lo storico Francesco Barra - voler spiegare le foibe come la reazione del partigiani di Tito ai crimini italiani. In quella linea di faglia della storia la situazione era molto più complessa, si scontrarono allo stesso tempo diversi interessi nazionali, spinte ideologiche e pressioni più grandi, di carattere geopolitico. Alla fine, essendo caduto il fascismo il 25 luglio del 1943 le istituzioni e i cittadini italiani finirono per rappresentare in quella terra l’elemento più debole, che pagò più di tutti». Perché, va detto, la Repubblica sociale di Mussolini nelle condizioni di sudditanza in cui si trovò, lasciò campo libero in quelle terre alle truppe naziste che diedero vita alla Zona d'Operazione del Litorale Adriatico, disarmaando questure e caserme italiane, per portare avanti il vecchio disegno austro-ungarico di aprirsi uno sbocco sul mare.
A Fiume, dove la Provincia del Carnaro aveva esteso la sua giurisdizione nei territori occupati dall’esercito italiano, i principali responsabili dei crimini fascisti, il prefetto Temistocle Testa e il questore Vincenzo Genovese, nel presagio dei tempi difficili che si annunciavano, avevano in quel momento già abbandonato il territorio. Testa in particolare, il principale responsabile, già a febbraio si era fatto nominare commissario in Sicilia. A presidiare le istituzioni italiane rimasero non i fascisti, quindi, ma funzionari coraggiosi fedeli alla bandiera italiana, molti di loro animati da fede cristiana, come - a Fiume - il questore reggente Giovanni Palatucci e a Trieste il commissario dell’ufficio politico della questura Feliciano Ricciardelli. Entrambi si prodigarono per gli italiani in difficoltà e per gli ebrei in fuga dalla ex Jugoslavia, ed entrambi finirono deportati a Dachau, dove Palatucci perse la vita, mentre Ricciardelli si salvò. «E assunse poi un ruolo importante di raccordo - ricorda Barra - fra le istituzioni italiane e il comando alleato». E sempre a Trieste si distinse per fede e coraggio un altro grande italiano, originario di Rovigno, monsignor Antonio Santin, vescovo prima di Fiume e poi di Trieste-Capodistria. Difese tutti i perseguitati, salvò ebrei, ma anche croati, sloveni, italiani. Ed ebbe l’ardire di affrontare Mussolini in persona sul sagrato di San Giusto, a chiedergli conto delle leggi razziali. Il dovere del Ricordo vale anche per persone come lui.